repechage e manifesta insussistenza del fatto

 

repechage e reintegra, secondo la cassazione la violazione del repechage può costituire manifesta insussistenza del fatto addotto a giustificato motivo del lcienziamento ma non è obbligatoria la reintegra

 

 

 

 

Con una recente pronuncia, la Suprema Corte ha fornito ulteriori decisive indicazioni in merito agli effetti, sul licenziamento intimato dal datore di lavoro rientrante, sul piano astratto, nel campo applicativo dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970, indotti dalla possibilità di repechage e/o dalla prova (o, meglio, dalla mancanza di prova) di tale possibilità.

Il repechage o ripescaggio è il frutto di elaborazione giurisprudenziale nel senso che esso non è previsto espressamente da alcuna norma di legge quale requisito di validità del licenziamento per GMO essendo, però, stato interpretato come un elemento costitutivo implicito del giustificato motivo del licenziamento per ragioni organizzative.

Non è, in tal senso, sufficiente che il datore di lavoro provi l'effettività della ragione organizzativa che lo induce alla soppressione di una posizione di lavoro essendo, altresì, necessaria la prova dell'impossibilità di adibizione del lavoratore eccedente ad altri settori in posizioni eventualmente disponibili nell'organizzazione aziendale.

Di recente, la S.C., mutando il proprio precedente consoldiato indirizzo, ha ritenuto che l'onere di allegare  e provare l'impossibilità di repechage gravasse sul datore di lavoro non essendo necessario, così come in precedenza ritenuto costantemente, che il lavoratore indicasse, con il ricorso giudiziale, il posto disponibile cui avrebbe ambito di essere collocato e non potendo essere, così, circoscritto l'onere probatorio gravante sul datore di lavoro.

In tal modo il datore di lavoro risulta gravato di un onere di allegazione e prova quasi proibitivo essendo tenuto ad allegare e provare circostanze negative come l'inesistenza di alcuna possibilità di occupazione alternativa nell'organizzazione d'impresa.

Per questo, la giurisprudenza ha più volte chiarito che la prova non può che essere fornita con elementi di fatto di natura indiziaria.

Con la sentenza in commento, gli elementi di problematicità già presenti nell'accertamento dell'esistenza o meno della violazione in tema di repechage si sono arricchiti sul piano degli effetti in quanto, come noto, con la recente modifica dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970 ad opera della l. n. 92 del 2012, l'illegittimità del licenziamento intimato per motivi oggettivi può dare luogo alla tutela reintegratoria solo in caso di manifesta insussistenza del fatto addotto a fondamento del licenziamento.

Si poneva, quindi, la questione preliminare se l'impossibilità di repechage dovesse essere considerata come un implicito elemento costitutivo del fatto  e, se, conseguentemente, la sua manifesta insussistenza potesse (o dovesse) dare luogo alla pronuncia di reintegra.

Secondo la pronuncia in commento, a tale quesito va data risposta positiva. Se la possibilità di repechage è manifesta allora potrebbe essere pronunciata la reintegra.

Quanto alla distinzione tra manifesta e non manifesta sussistenza della possibilità di repechage, la sentenza enuclea l'elemento discretivo dell'evidenza della prova. Si potrebbe ipotizzare, al riguardo, traendo spunto dagli arresti recentemente disattesi dalla giurisprudenza di legittimità, che detta evidenza sussista allorchè il lavoratore alleghi l'esistenza di una specifica posizione di lavoro al medesimo attribuibile e disponibile e laddove il datore di lavoro non fornisca la prova dell'indisponibilità di tale posizione o della usa non attribuibilità (ma qui siamo solo alle ipotesi).

La sentenza poi affronta un'ulteriore questione non rilevante nel caso di specie ma di cruciale importanza sulla prassi e, cioè, se, una volta riconosciuta la manifesta insussistenza del fatto (non importa se per l'insussistenza dell'impossibilità del repechage o per altro motivo) debba essere necessariamente somministrata la tutela reintegratoria. A tale quesito, la S.C. risponde negativamente argomentando dalla lettera della norma che utilizza la locuzione può e non deve e sul piano sistematico osservando che il giudice dovrà valutare se la reintegra sia eccessivamente onerosa per il datore di lavoro effettuando, quindi, una valutazione analoga a quella che, in generale, orienta la scelta, ex art. 2058 c.c., tra tutela risarcitoria in forma specifica e tutela per equivalente.  

Nel caso di specie, ad una lavoratrice era stato intimato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (da ora anche gmo), dichiarato, dai giudici di merito, illegittimo per violazione dell’obbligo di “repechage”; era quindi stata applicata la tutela indennitaria “forte” di cui all’art. 18, comma quinto, St. Lav. (ove è disposto che il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione a vari parametri).

La Cassazione ha confermato la sentenza del giudice di appello, ma con diversa motivazione, ritenendo che la violazione dell’obbligo di “repechage” possa rientrare nella “manifesta insussistenza del fatto” ove vi sia evidenza probatoria della predetta violazione, nel caso, tuttavia, non ravvisata; ed aggiunge che, in caso di accertata “manifesta insussistenza”, non può venire automaticamente in considerazione la tutela reintegratoria, che il giudice “può” applicare (secondo l’espressione adottata dal legislatore) solo ove non sia “eccessivamente onerosa” per l’azienda.

In precedenza, nell’ambito della Sezione lavoro, si era ritenuto, da un lato, che l’obbligo di “repechage” facesse parte della fattispecie di licenziamento per gmo (cfr., tra le altre, Cass. sez. lav., 5 gennaio 2017, n. 160), e, dall’altro, che, in presenza di accertata “manifesta insussistenza del fatto”, il giudice “dovesse” applicare la tutela reintregratoria (v. Cass. sez. lav., 14 luglio 2017, n. 17528).

 


Cassazione civile, sez. lav., 02/05/2018, n. 10435

 

“In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nel regime di cui al novellato art. 18 St. Lav., la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa, sia l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore.

La “manifesta insussistenza” va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui al comma 4 del medesimo art. 18 ove tale regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro”.


Secondo orientamento consolidato di questa Corte, la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, da un lato, l'esigenza di soppressione di un posto di lavoro, dall'altro, la impossibilità di diversa collocazione del lavoratore licenziato (repechage), consideratane la professionalità raggiunta, in altra posizione lavorativa analoga a quella soppressa (cfr. ex plurimis, Cass. n. 4460 del 2015, Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017). Con riferimento all'obbligo di repechage si è ritenuto, in particolare, che, trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro abbia sostanzialmente l'onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti di tipo indiziario o presuntivo idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l'impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale.

In sostanza, sul datore di lavoro incombe l'onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l'esercizio del potere di recesso, ossia l'effettiva sussistenza di una ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione o il funzionamento dell'azienda nonchè l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (cfr. Cass. n. 5592 del 2016, Cass. n. 12101 del 2016, Cass. n. 20436 del 2016, Cass. n. 160 del 2017, Cass. n. 9869 del 2017, Cass. n. 24882 del 2017, Cass. n. 27792 del 2017).

Ebbene, l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo è stata riscontrata, nel caso di specie, dalla Corte distrettuale per inottemperanza del datore di lavoro all'obbligo di repechage e, trattandosi di recesso sottoposto alla disciplina dettata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, come novellata dalla L. n. 92 del 2012, è stato applicato il regime sanzionatorio indennitario di cui al comma 5 in considerazione della riferibilità della nozione di "fatto posto a base del licenziamento" esclusivamente alla "modifica prodotta nella realtà dalla decisione aziendale" e al fine di scongiurare un'interpretazione della novella legislativa di "sostanziale abrogazione della previsione di applicabilità della tutela indennitaria".

L'esame del secondo motivo di ricorso impone di verificare la portata applicativa della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, e di individuare, in particolare, l'eventuale sussistenza di ipotesi, sia pur residuali (come questa Corte ha già affermato, cfr. Cass. n. 14021 del 2016), di operatività della tutela reintegratoria con particolare riguardo al caso in cui il datore di lavoro dimostri l'effettività della soppressione del posto di lavoro ma venga accertata l'esistenza di altri posti ove poter utilizzare il dipendente.

7.1. Posto che nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientra, come precedentemente osservato, sia l'esigenza della soppressione del posto di lavoro sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore, il riferimento legislativo alla "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento" va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie. Invero, a fronte della espressione lessicale utilizzata dal legislatore, il "fatto", sganciata da richiami diretti ed espliciti alle "ragioni" connesse con l'organizzazione del lavoro o l'attività produttiva previste dalla L. n. 604 del 1966, art. 3, il riferimento normativo deve intendersi effettuato alla nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo così come elaborata dalla giurisprudenza consolidata.

Quindi, una volta accertata l'ingiustificatezza del licenziamento per carenza di uno dei due presupposti (e, in particolare, nel caso di specie, per inottemperanza all'obbligo del repechage), il giudice di merito, ai fini dell'individuazione del regime sanzionatorio da applicare, deve verificare se sia manifesta ossia evidente l'insussistenza anche di uno solo degli elementi costitutivi del licenziamento, cioè della ragione inerente l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa che causalmente determini un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa, ovvero della impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni diverse.

Il concetto di "manifesta insussistenza" dimostra che il legislatore ha voluto limitare ad ipotesi residuali il diritto ad una tutela reintegratoria; non potendosi che far riferimento al piano probatorio sul quale il datore di lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 5, deve cimentarsi, esso va riferito ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, accertamento di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità.

7.2. Il sistema legislativo di graduazione delle sanzioni applicabili prevede, inoltre, che il giudice che ritenga evidente la carenza di uno degli elementi costitutivi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo possa ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro. Nello schema legislativo è previsto, infatti, che il licenziamento fondato su fatti manifestamente insussistenti "può" essere assoggettato a sanzioni diverse, la reintegrazione nel posto di lavoro (L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4) oppure il risarcimento del danno (comma 5 della medesima norma), e la soluzione esegetica da privilegiare non può prescindere dal tenore lessicale della disposizione, non potendosi condividere interpretazioni (cfr. Cass. n. 17528 del 2017) che privino di significato il dato letterale.

L'applicazione della tutela reale richiede, quindi, un ulteriore vaglio giudiziale.

La legge non fornisce nessuna indicazione per stabilire in quali occasioni il giudice possa attenersi al regime sanzionatorio più severo o a quello meno rigoroso ma dovendo, la scelta di tale alternativa, essere motivata dal giudice, si impone all'interprete lo sforzo esegetico di individuare i criteri in base ai quali il potere discrezionale possa essere esercitato. Il criterio che consenta al giudice di esercitare, secondo principi di ragionevolezza, il potere discrezionale attribuito dal legislatore può essere desunto dai principi generali forniti dall'ordinamento in materia di risarcimento del danno, e, in particolare, dal concetto di eccessiva onerosità al quale il codice civile fa riferimento nel caso in cui il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica (art. 2058 c.c., applicabile anche ai casi di responsabilità contrattuale, cfr. Cass. n. 15726 del 2010, Cass. n. 4925 del 2006, Cass. n. 2569 del 2001, Cass. n. 582 del 1973) ovvero di diminuire l'ammontare della penale concordata tra le parti (art. 1384 c.c.). Il ricorso ai principi generali del diritto civile permette di configurare un parametro di riferimento per l'esercizio del potere discrezionale del giudice, consentendogli di valutare - per la scelta del regime sanzionatorio da applicare - se la tutela reintegratoria sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa. Una eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il rapporto di lavoro può consentire, dunque, al giudice di optare - nonostante l'accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento - per la tutela indennitaria.
 
  
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