Il permesso di soggiorno per motivi umanitari: le norme internere e internazionali di riferimenti e la giurisprudenza in tema di protezione internazionale per motivi umanitari
Argomenti correlati
Lo status di rifugiato e quello di protezione sussidiaria esauriscono il novero delle misure imposte dalla disciplina sovranazionale e riconducibili alla c.d. protezione internazionale.
Sul piano del diritto interno, in attuazione dell’art. 10, comma 3, Cost., lo spettro delle condizioni suscettibili di giustificare la concessione di una misura di protezione è ampliato attraverso la permanente operatività dell’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 5, comma 6, d.lgs. 286/98), comportante limiti ulteriori all’esercizio del potere di rimpatrio coattivo.
È appena il caso di sottolineare, infatti, come la sussistenza di obblighi di matrice comunitaria non preclude al legislatore nazionale di introdurre, in un’ottica di massimizzazione dello standard di tutela, misure e istituti ulteriori e diversi da quelli previsti in attuazione del Sistema europeo comune di asilo (C.GUE c. 57/2009 Bundesrepublik Deutschland c. B. e D.).
Tanto premesso, con l’entrata in vigore del d.lgs. 251/2007, il legislatore ha previsto la conversione, in sede di rinnovo, del permesso di soggiorno rilasciato ex art. 5 d.lgs. 286/98 nella misura di nuovo conio della protezione sussidiaria, con conseguente estensione dei diritti e delle garanzie connesse a tale titolo di soggiorno (art. 34, commi 4 e 5, d.lgs. 251/2007).
Il tenore della norma evidenzia una parziale sovrapponibilità dei presupposti applicativi delle due misure, sebbene non possa disconoscersi un’autonoma sfera di operatività all’istituto del permesso di soggiorno c.d. umanitario.
La coesistenza delle due misure (ed il permanere di due distinti binari di tutela) emerge nitidamente dalla formulazione dell’art. 32, comma 3, d.lgs. 25/2008, ai sensi del quale qualora non ritenga sussistenti i presupposti per l’accoglimento della domanda di protezione internazionale, sussistendo gravi motivi di carattere umanitario, “la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”.
Più in particolare , l’accesso alla misura è subordinato al riscontro di “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” (art. 5, comma 5 d.lgs. 286/1998), tali da precludere il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno nonostante lo straniero “non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti”.
A sua volta, l’art. 19 d.lgs. 286, rubricato “Divieti di espulsione e di respingimento”, al comma 1 stabilisce che non possa in nessun caso essere disposta l’espulsione o il respingimento “verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.
La l. 14 luglio 2017, n. 110, introduttiva del delitto di tortura nell’ordinamento italiano, ha inserito nel corpo della norma il comma 1.1, a mente del quale “Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”.
Ai successivi commi 2 e 2-bis, sempre in applicazione del principio del non refoulement sancito all’art. 19, co. 2 CEDU, si prevede: “Non e' consentita l'espulsione, salvo che nei casi previsti dall'articolo 13, comma 1, nei confronti:
a) degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi;
b) degli stranieri in possesso della carta di soggiorno, salvo il disposto dell'articolo 9;
c) degli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge, di nazionalità italiana;
d) delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono.
2-bis. Il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione di persone affette da disabilità, degli anziani, dei minori, dei componenti di famiglie monoparentali con figli minori nonché dei minori, ovvero delle vittime di gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali sono effettuate con modalità compatibili con le singole situazioni personali, debitamente accertate”.
Su queste basi, il D.P.R. 394 del 31 agosto 1999 (recante norme di attuazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 286/1998), all’art. 11, l. c-ter, prevede che il permesso di soggiorno venga rilasciato, tra l’altro, “per motivi umanitari, nei casi di cui agli articoli 5, comma 6 e 19, comma 1, del testo unico, previo parere delle Commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero acquisizione dall'interessato di documentazione riguardante i motivi della richiesta relativi ad oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l'allontanamento dello straniero dal territorio nazionale”.
Ebbene, sotto un primo profilo, e salvo obliterare il contenuto più immediato ed essenziale della locuzione “seri motivi di carattere umanitario”, la protezione in parola non può non ricomprendere quelle situazioni di elevata vulnerabilità derivanti da gravi insufficienze e deficit di tutela dei diritti umani fondamentali (Cass., Sez.VI, 29 novembre 2013, n. 26887).
In assenza di ulteriori specificazioni, può farsi riferimento al corredo di diritti inviolabili riconducibili alla clausola generale di cui all’art. 2 Cost. al fine di apprestare tutela a situazioni giuridiche che, sebbene non integranti i presupposti dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, nondimeno si palesino meritevoli di protezione.
Trattasi di quelle “situazioni vulnerabili non rientranti nelle misure tipiche o perché aventi il carattere della temporaneità, o perché vi sia un impedimento al riconoscimento della protezione sussidiaria, o, infine, perché intrinsecamente diverse nel contenuto rispetto alla protezione internazionale ma caratterizzare da un’esigenza qualificabile come umanitaria (problemi sanitari, madri di minori etc.)” (Cass., Sez. VI, 7 luglio 2014, n. 15466).
Se così è, la persistenza dell’istituto della protezione umanitaria si giustifica alla luce delle diverse condizioni astrattamente idonee a fondarne il riconoscimento, rispetto a quella poste alla base della protezione sussidiaria, ovvero in ragione della correlazione a condizioni temporalmente circoscritte (Cass., Sez. VI, 21 novembre 2011, n. 24544).
Che le situazioni emergenziali presidiate dall’istituto in parola si caratterizzino per la loro intrinseca temporaneità si desume, in particolare, dalla formulazione dell’art. 14, comma 4, D.P.R. n. 21 del 12 gennaio 2015, che fa riferimento alla durata biennale del permesso di soggiorno per motivi umanitari (sebbene rinnovabile previa verifica della permanenza delle condizioni di rilascio), a fronte della validità quinquennale di quello rilasciato ai titolari dello status di rifugiato e triennale per i destinatari della protezione sussidiaria (art. 23 d.lgs. 251/2007).
In ogni caso, per cogliere il proprium dell’istituto, l’attenzione non va tanto focalizzata sulla tipologia dei diritti oggetto di tutela, riconducibili pur sempre al genus delle “libertà democratiche” menzionate dall’art. 10 Cost. (ed ulteriormente specificate in differenti luoghi del testo costituzionale e nelle carte dei diritti sovranazionali), quanto piuttosto sull’identificazione della particolare fonte da cui origina la minaccia incombente sul richiedente protezione.
La protezione umanitaria infatti “non richiede che la minaccia necessariamente provenga da guerre (internazionali o civili) da persecuzioni (statali o private), da violenti conflitti etnici o anche solo endo-familiari, verso i quali non venga prestata tutela dalle autorità di cui si è richiesta la protezione” , ma consente di offrire “copertura maggiore quando questi beni siano pregiudicati o gravemente minacciati da veri e propri disastri umanitari, talvolta epocali e diffusi su un ampio arco temporale. Talvolta locali e circoscritti nel tempo”. (Trib. Firenze, 19 febbraio 2018).
Tale impostazione , senz’altro coerente con la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria, non comporta la concessione della misura sulla base della mera constatazione di una situazione di vulnerabilità, ma postula la verifica della sussistenza di un nesso di derivazione tra la situazione personale rappresentata dal ricorrente e le dinamiche che interessano il Paese di origine e che non consentono di ritenere sussistenti i presupposti di base per l’emancipazione da tale condizione di deprivazione.
Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito come “il diritto alla protezione umanitaria non può essere riconosciuto per il semplice fatto che lo straniero versi in non buone condizioni di salute, necessitando, invece, che tale condizione sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza” (Cass., Sez. VI, 21 dicembre 2016, n. 26641).
Né vale a confutare tale impostazione la difficoltà di verificare, in assenza del fumus persecutionis o dei presupposti del danno grave legittimante la protezione sussidiaria, la credibilità del dichiarante e l’attendibilità delle relative dichiarazioni, in quanto, ragionando in questi termini, si opera una sovrapposizione tra le questioni relative all’identificazione dei presupposti alla base della misura e quelle inerenti il relativo accertamento nel caso concreto.
In relazione alla particolare casistica riconducibile alla richiesta di protezione motivata da ragioni prettamente economiche, l’orientamento maggioritario invalso in giurisprudenza è nel senso di escludere che la condizione di indigenza possa giustificare, di per sé, il riconoscimento della protezione umanitaria (Trib. Milano, Sez. I, 23 aprile 2016).
Tale impostazione muove dalla considerazione giusta la quale il rischio di povertà in caso di rientro nel Paese di origine non può legittimare la concessione della misura, in quanto, diversamente opinando, “la stessa funzione della protezione umanitaria verrebbe ad essere frustrata consistendo essa misura non già nel garantire una forma di assistenza sociale agli stranieri bisognosi” (Trib. Milano, Sez. I, 3 giugno, ord. 3 giugno 2016).
Peraltro, a suffragare la soluzione negativa è addotta la necessità di contemperare le ragioni di tutela, prevista a livello costituzionale, delle emergenze connesse alla situazione di taluni stranieri in Italia, con le istanze connesse alla necessità di assicurare l’equilibrio di bilancio, costituente anch’esso principio costituzionale inderogabile (cfr. C. Cost., 27 febbraio 2013, n. 36).
Si sottolinea inoltre come, essendo l’ingresso in Italia per motivi lavorativi e la procedura per l’ottenimento del relativo permesso di soggiorno espressamente regolati all’art. 5, comma 3 bis, d.lgs. 286/1998 (e complessivamente dal titolo III dello stesso decreto), “il permesso per motivi umanitari non può costituire lo strumento per aggirare l’applicazione di tale normativa” (C. App. Genova, Sez. III, 17 gennaio 2018).
A ben vedere, prestando ossequio al dato normativo, non si vede come a situazioni di indigenza estrema e generalizzata, tali da compromettere il diritto di accesso alle risorse indispensabili alla sussistenza e l’emancipazione dai bisogni primari dell’essere umano, possa disconoscersi la valenza di emergenze umanitarie tali da giustificare la concessione della misura in esame.
Come recentemente riconosciuto in giurisprudenza, la condizione di vulnerabilità può infatti essere integrata dalla “mancanza delle condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa” (Cass., Sez. I, 23 febbraio 2018, n. 4455).
Valorizzando il prospettato criterio dimensionale, da intendersi in un’accezione qualitativa, in uno con l’indefettibile correlazione tra il pregiudizio sofferto e la complessiva situazione del contesto di provenienza, la mancanza o l’esiguità di risorse finanziarie, isolatamente considerata, non varrà a giustificare l’accesso alla protezione umanitaria, rendendosi necessaria l’allegazione di ulteriori elementi suscettibili di inverare quei gravi motivi di carattere umanitario riconducibili alla violazione dei diritti umani fondamentali, conformemente al disposto degli artt. 2, 3 e 4 CEDU, subita nel Paese di origine e non altrimenti emendabile (cfr. Cass., Sez. VI, 19 febbraio 2018, n. 3933).
Allo stesso modo, l’allegazione dei risultati positivi conseguiti dallo straniero in termini di integrazione nel tessuto sociale non è, isolatamente considerata, circostanza risolutiva ai fini del positivo apprezzamento per la protezione umanitaria. Eventualmente, i risultati in termini di integrazione sociale e inserimento lavorativo potranno valere come indici sintomatici di speciale vulnerabilità nell’ambito di una valutazione comparativa tra la condizione antecedente e quella successiva all’ingresso in Italia, volta a evidenziare la sproporzione sussistente tra i due contesti di vita in relazione al godimento dei diritti fondamentali. Indagine, quest’ultima, da compiersi alla luce, oltre che dell’art. 2 Cost., della previsione di cui all’art. 8 CEDU, posto a presidio della vita privata e familiare.
Quanto, infine, al riferimento agli obblighi di matrice costituzionale, si è evidenziato in giurisprudenza come “il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario” (Cass., 4 agosto 2016, n. 16362).
La conseguenza che se ne trae è che la domanda avente ad oggetto il riconoscimento delle condizioni di rilascio del permesso umanitario costituisce parte integrante di quella relativa al diritto d'asilo (Cass., Sez. VI, 17 ottobre 2014, n. 22111).