La Suprema Corte ha chiarito con una recente pronuncia che i compensi percepiti in qualità di componente del CDA da un avvocato non possono essere automaticamente assoggettati a contribuzione alla Cassa Forense
Con la sentenza n 5975 del 11 marzo 2013, la Suprema Corte si occupa nuovamente del problema relativo all'assoggettamento a contribuzione presso l'ente di previdenza libero professionale di compensi derivanti da attività atipiche, da attività, cioè, differenti da quelle per il cui svolgimento sia richiesta l'iscrizione all'albo professionale.
Nella specie si trattava di compensi percepiti da un avvocato per la partecipazione ad un consiglio di amministrazione e della relativa pretesa, ritenuta infondata nei gradi del merito, di vederli assoggettati a contribuzione presso la Cassa Forense.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso sul rilievo che, in difetto di prova sulla tipologia dell'attività svolta in sede al consiglio, doveva ritenersi carente la prova sulla natura professionale di detta attività, sia pure in senso lato.
Nella parte motiva, infatti, la Corte di legittimità ha avuto modo di chiarire che il novero delle attività soggette a contribuzione presso gli enti previdenziali libero professionale si è andato nel tempo ampliando fino a ricomprendere anche attività non tipiche che, tuttavia, implichino la spendita del bagaglio conoscitivo tipico della professione. Invero, si tratta di un indirizzo, quest'ultimo, non pacifico nella giurisprudenza di legittimità che, in altre occasioni, ha avuto modo di precisare che non è sufficiente la spendita del bagaglio conoscitivo professionale per sancire l'assoggettamento dei compensi derivanti dalla relativa attività alla contribuzione presso l'ente di previdenza libero professionale (ex multis, si veda Cass Civ 3468 del 2005).
Cassazione civile sez. lav. 11 marzo 2013 n. 5975
L'imposizione contributiva prevista per gli avvocati riguarda i soli redditi prodotti dallo svolgimento dell'attività professionale, concetto che ricomprende anche attività che, pur non essendo professionalmente tipiche, presentano un nesso con l'attività professionale strettamente intesa; l'obbligo è invece escluso quando non si ravvisa in concreto alcun intreccio tra l'attività prestata e le competenze tipiche del professionista (nella specie, la Corte ha escluso che quanto percepito dal professionista quale componente di un Cda o per la sua partecipazione fosse da considera di natura professionale e come tale soggetto a contribuzione previdenziale alla cassa di previdenza).
1.- Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione della L. n. 576 del 1980, artt. 10 e 11, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha affermato che i redditi percepiti da un avvocato quale componente del consiglio di amministrazione di una società di capitali non sono soggetti a contribuzione a favore della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense e chiedendo a questa Corte di stabilire "se il reddito percepito dall'avvocato quale componente di un consiglio di amministrazione di una società o per la sua partecipazione al consiglio di amministrazione, sia da considerarsi di natura professionale e come tale soggetto a contribuzione previdenziale alla cassa forense... anche se l'incarico sia di durata limitata e sporadica e se lo stesso incarico possa essere svolto anche da soggetto non in possesso dell'abilitazione all'esercizio della professione forense di avvocato".
2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione della L. n. 576 del 1980, artt. 10 e 11, artt. 2697 e 2698 c.c., art. 115 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, evidenziando che gli emolumenti in questione erano stati comunicati alla Cassa dallo stesso D.M. come compensi professionali e chiedendo, quindi, a questa Corte di stabilire "se nel giudizio di opposizione a cartella esattoriale per contributi dovuti alla cassa forense, qualora l'opponente contesti la legittimità della pretesa contributiva previdenziale deducendo la natura non professionale di alcune componenti del reddito, componenti reddituali dichiarate invece in precedenza alla cassa forense come professionale, spetta all'opponente dimostrare, ai sensi degli artt. 2697 e 2698 c.c., nonchè dell'art. 115 c.p.c., la natura non professionale dell'emolumento percepito".
3.- Il primo motivo è infondato. Il quesito formulato dalla ricorrente deve trovare risposta nei principi già affermati da questa Corte, con riferimento a fattispecie analoghe (cfr. Cass. n.7384/96, Cass. n. 629/93), secondo cui la L. 20 settembre 1980, n. 576, art. 11, (modificato dalla L. 2 maggio 1983, n. 175, art. 2) - che prevede, nel suo primo comma, l'obbligo per gli avvocati e procuratori (nonchè per i praticanti procuratori) di versare alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per avvocati e procuratori una maggiorazione percentuale o contributivo integrativo "su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d'affari ai fini dell'I.V.A." - va interpretato, alla luce degli elementi letterali desumibili, in particolare, dagli artt. 10 e 22 della stessa legge, e tenuto conto della ratio della medesima, nel senso che oggetto di tale imposizione contributiva sono soltanto i redditi prodotti dallo svolgimento dell'attività professionale, restandone invece esclusi quelli che non sono riconducibili all'esercizio della professione strido sensu in quanto prodotti nell'esercizio di attività che rimangono, rispetto ad essa, del tutto estranee.
4.- Seguendo la stessa linea interpretativa, è stato affermato (Cass. n. 2910/99) che l'avvocato che, unitamente all'attività forense, svolga quella inerente all'esercizio di un'agenzia di pratiche ipotecarie e catastali, deve tener conto anche dei redditi derivanti da tale ultima attività per determinare la maggiorazione dovuta alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza per avvocati e procuratori ai sensi della L. n. 576 del 1980, art. 11, (come modificato dalla L. n. 175 del 1983, art. 2), giacchè non trattasi di redditi derivanti da un'attività del tutto estranea alla professione forense, bensì funzionale ad essa, essendo addirittura compresa nelle tariffe professionali per i diritti di procuratore spettanti nei giudizi di esecuzione, a nulla rilevando che essa possa essere svolta anche da chi non sia in possesso del titolo abilitante all'esercizio della professione forense. Così come è stato affermato che l'attività di consulenza ed assistenza legale, svolta dall'iscritto all'albo degli avvocati, sia pure in materia fiscale e tributaria, è qualificabile come attività professionale di avvocato, ai sensi dell'ordinamento della professione di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni nella L. 22 gennaio 1934, n. 36, e quindi i relativi redditi e volumi di affari sono soggetti a contribuzione a favore della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense ai sensi della L. 20 settembre 1980, n. 576, artt. 10 e 11.
5.- Più recentemente, questa Corte ha ribadito (Cass. n. 8835/2011) che, ai sensi del vigente ordinamento della professione forense di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni nella L. 22 gennaio 1934, n. 36, l'attività di consulenza finanziaria svolta dall'avvocato deve reputarsi connessa - o comunque non estranea - rispetto a quella tipica della professione, con la conseguenza che i relativi redditi e volumi di affari vanno assoggettati a contribuzione ai sensi della L. 20 settembre 1980, n. 576, artt. 10 e 11, e successive modifiche. Ed ha precisato (cfr.
Cass. n. 14684/2012) come, al fine di stabilire se i redditi prodotti dall'attività di un libero professionista siano qualificabili come redditi professionali, soggetti, come tali, alla contribuzione dovuta alla Cassa previdenziale di categoria, il concetto di "esercizio della professione" debba essere interpretato non in senso statico e rigoroso, bensì tenendo conto dell'evoluzione subita nel mondo contemporaneo (rispetto agli anni cui risale la normativa di "sistema" dettata per la varie libere professioni) dalle specifiche competenze e dalle cognizioni tecniche libero professionali;
evoluzione che ha comportato (come opportunamente sottolineato in dottrina) la progressiva estensione dell'ambito proprio dell'attività professionale, con occupazione, da parte delle professioni, di tutta una serie di spazi inesistenti nel quadro tipico iniziale. Ne consegue che nel concetto in questione deve ritenersi compreso, oltre all'espletamento delle prestazioni tipicamente professionali (ossia delle attività riservate agli iscritti negli appositi albi), anche l'esercizio di attività che, pur non professionalmente tipiche, presentino, tuttavia, un "nesso" con l'attività professionale strettamente intesa, in quanto richiedono le stesse competenze tecniche di cui il professionista ordinariamente si avvale nell'esercizio dell'attività professionale e nel cui svolgimento, quindi, mette a frutto (anche) la specifica cultura che gli deriva dalla formazione tipologicamente propria della sua professione.
6.- Nè si è mancato di sottolineare (cfr. Cass. n. 14684/2012 cit.) che questa interpretazione, valida per tutte le categorie professionali e che si traduce nell'escludere la sussistenza dell'obbligo contributivo solamente nel caso in cui non sia, in concreto, ravvisabile un intreccio tra tipo di attività e conoscenze tipiche del professionista, è già stata suggerita dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 402 del 1991, resa a proposito del contributo integrativo dovuto dagli avvocati e procuratori iscritti alla Cassa di previdenza ai sensi della L. n. 576 del 1980, art. 11, comma 1, nella quale si è esplicitamente affermato che il prelievo contributivo in parola è collegato all'esercizio professionale e che per tale deve intendersi anche la prestazione di attività riconducibili, per loro intrinseca connessione, ai contenuti dell'attività propria della libera professione; in sostanza, le prestazioni contigue, per ragioni di affinità, a quelle libero professionali in senso stretto, rimanendone escluse solamente quelle che con queste non hanno nulla in comune.
7.- Nel caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto che non vi fossero elementi concreti per sostenere che i redditi in questione, derivanti dall'attività di consigliere di amministrazione di una società di capitali, potessero in qualche modo ricondursi all'esercizio dell'attività professionale di avvocato, non essendo emerso che la partecipazione del D.M. all'attività del consiglio di amministrazione avesse mai richiesto le stesse competenze tecniche di cui il professionista ordinariamente si avvaleva nell'esercizio dell'attività professionale. A fronte di una sentenza così motivata, la ricorrente si è limitata a svolgere, con il primo motivo, alcune considerazioni di carattere generale in ordine alla necessità di avere riguardo - in un'ottica interpretativa più attenta al contenuto attuale della professione forense - alla "natura della specifica attività svolta" o alla "natura tecnica dell'attività prestata", senza tuttavia indicare alcun elemento dal quale possa dedursi che, in concreto, l'attività svolta dal D.M. quale componente del consiglio di amministrazione della società Gama abbia assunto connotati tali da poter essere oggettivamente ricondotta a quella tipica della professione, sì che i relativi redditi e volumi di affari debbano essere assoggettati a contribuzione ai sensi della L. n. 576 del 1980, artt. 10 e 11. Da tanto consegue l'infondatezza del primo motivo ed il rigetto delle relative censure.
8.- Anche il secondo motivo deve ritenersi infondato. Come questa Corte ha già affermato (cfr. ex plurimis Cass. n. 19064/2006, Cass. n. 2155/2001), la violazione del precetto di cui all'art. 2697 c.c., si configura soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia - o meno - assolto tale onere, poichè in questo caso vi sarà soltanto un erroneo apprezzamento sull'esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5.
9.- Nella specie, come si è già detto, la Corte territoriale ha ritenuto che non vi fossero elementi concreti per sostenere che i redditi derivanti dall'attività di consigliere di amministrazione di una società di capitali potessero in qualche modo ricondursi all'esercizio dell'attività professionale di avvocato ed ha aggiunto che, dovendo l'obbligo dell'iscrizione alla Cassa previdenziale fondarsi su circostanze obiettive, inerenti alla natura dei redditi prodotti dall'attività professionale, tale obbligo non poteva "consolidarsi sulla scorta di erronee comunicazioni da parte del presunto obbligato", escludendo, quindi, che, in difetto di altri elementi, dette comunicazioni (e cioè quelle contenute nelle dichiarazioni dei redditi e nella domanda di iscrizione alla Cassa) potessero costituire prova della natura professionale dei redditi percepiti dal D.M. per la sua partecipazione al Consiglio di amministrazione della società Gama.
10.- Tale affermazione, che non si pone certo in contrasto con la disposizione dell'art. 2697 c.c., o con le altre norme di cui la ricorrente denuncia la violazione con il secondo motivo di ricorso, ben poteva essere impugnata sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), tenendo presente, però, che alla cassazione della sentenza per vizi della motivazione si può giungere solo quando tale vizio emerga dall'esame del ragionamento del giudice, quale risulta dalla sentenza, che si riveli incompleto, incoerente e illogico, non già quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis Cass. n. 9547/2010), e che - per il principio di autosufficienza - il ricorrente che denuncia, sotto il profilo di omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, l'omessa o erronea valutazione delle risultanze istruttorie ha l'onere di indicarne specificamente il contenuto (cfr. ex plurimis Cass. n. 15952/2007, Cass. n. 4178/2007) e, per quanto riguarda in particolare le prove documentali, di riprodurre nell'impugnazione il tenore esatto del documento, il cui omesso o inadeguato esame è stato censurato; solo in questo modo, infatti, può consentire al giudice di legittimità (al quale è istituzionalmente vietato di ricercare le prove direttamente negli atti di causa) di valutare la pertinenza e la decisività dei medesimi fatti.
Nel caso all'esame, la ricorrente, oltre a lamentare genericamente la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata su un punto decisivo della controversia, non ha riportato in ricorso il tenore esatto della documentazione di cui si discute (limitandosi a indicarne solo sinteticamente il contenuto ed a proporne un giudizio valutativo diverso da quello effettuato dalla Corte d'appello), sì che le censure espresse nel secondo motivo si risolvono, in definitiva, in una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte d'appello, inidonea a radicare un deducibile vizio di motivazione di quest'ultima.
11.- In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con la conferma della sentenza impugnata.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate facendo riferimento alle disposizioni di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella A ivi allegata, in vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42, D.M. cit.).
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 1.800,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2013
Cassazione civile sez. lav. 11 marzo 2013 n. 5975
L'imposizione contributiva prevista per gli avvocati riguarda i soli redditi prodotti dallo svolgimento dell'attività professionale, concetto che ricomprende anche attività che, pur non essendo professionalmente tipiche, presentano un nesso con l'attività professionale strettamente intesa; l'obbligo è invece escluso quando non si ravvisa in concreto alcun intreccio tra l'attività prestata e le competenze tipiche del professionista (nella specie, la Corte ha escluso che quanto percepito dal professionista quale componente di un Cda o per la sua partecipazione fosse da considera di natura professionale e come tale soggetto a contribuzione previdenziale alla cassa di previdenza).
1.- Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione della L. n. 576 del 1980, artt. 10 e 11, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha affermato che i redditi percepiti da un avvocato quale componente del consiglio di amministrazione di una società di capitali non sono soggetti a contribuzione a favore della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense e chiedendo a questa Corte di stabilire "se il reddito percepito dall'avvocato quale componente di un consiglio di amministrazione di una società o per la sua partecipazione al consiglio di amministrazione, sia da considerarsi di natura professionale e come tale soggetto a contribuzione previdenziale alla cassa forense... anche se l'incarico sia di durata limitata e sporadica e se lo stesso incarico possa essere svolto anche da soggetto non in possesso dell'abilitazione all'esercizio della professione forense di avvocato".
2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione della L. n. 576 del 1980, artt. 10 e 11, artt. 2697 e 2698 c.c., art. 115 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, evidenziando che gli emolumenti in questione erano stati comunicati alla Cassa dallo stesso D.M. come compensi professionali e chiedendo, quindi, a questa Corte di stabilire "se nel giudizio di opposizione a cartella esattoriale per contributi dovuti alla cassa forense, qualora l'opponente contesti la legittimità della pretesa contributiva previdenziale deducendo la natura non professionale di alcune componenti del reddito, componenti reddituali dichiarate invece in precedenza alla cassa forense come professionale, spetta all'opponente dimostrare, ai sensi degli artt. 2697 e 2698 c.c., nonchè dell'art. 115 c.p.c., la natura non professionale dell'emolumento percepito".
3.- Il primo motivo è infondato. Il quesito formulato dalla ricorrente deve trovare risposta nei principi già affermati da questa Corte, con riferimento a fattispecie analoghe (cfr. Cass. n.7384/96, Cass. n. 629/93), secondo cui la L. 20 settembre 1980, n. 576, art. 11, (modificato dalla L. 2 maggio 1983, n. 175, art. 2) - che prevede, nel suo primo comma, l'obbligo per gli avvocati e procuratori (nonchè per i praticanti procuratori) di versare alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per avvocati e procuratori una maggiorazione percentuale o contributivo integrativo "su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d'affari ai fini dell'I.V.A." - va interpretato, alla luce degli elementi letterali desumibili, in particolare, dagli artt. 10 e 22 della stessa legge, e tenuto conto della ratio della medesima, nel senso che oggetto di tale imposizione contributiva sono soltanto i redditi prodotti dallo svolgimento dell'attività professionale, restandone invece esclusi quelli che non sono riconducibili all'esercizio della professione strido sensu in quanto prodotti nell'esercizio di attività che rimangono, rispetto ad essa, del tutto estranee.
4.- Seguendo la stessa linea interpretativa, è stato affermato (Cass. n. 2910/99) che l'avvocato che, unitamente all'attività forense, svolga quella inerente all'esercizio di un'agenzia di pratiche ipotecarie e catastali, deve tener conto anche dei redditi derivanti da tale ultima attività per determinare la maggiorazione dovuta alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza per avvocati e procuratori ai sensi della L. n. 576 del 1980, art. 11, (come modificato dalla L. n. 175 del 1983, art. 2), giacchè non trattasi di redditi derivanti da un'attività del tutto estranea alla professione forense, bensì funzionale ad essa, essendo addirittura compresa nelle tariffe professionali per i diritti di procuratore spettanti nei giudizi di esecuzione, a nulla rilevando che essa possa essere svolta anche da chi non sia in possesso del titolo abilitante all'esercizio della professione forense. Così come è stato affermato che l'attività di consulenza ed assistenza legale, svolta dall'iscritto all'albo degli avvocati, sia pure in materia fiscale e tributaria, è qualificabile come attività professionale di avvocato, ai sensi dell'ordinamento della professione di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni nella L. 22 gennaio 1934, n. 36, e quindi i relativi redditi e volumi di affari sono soggetti a contribuzione a favore della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense ai sensi della L. 20 settembre 1980, n. 576, artt. 10 e 11.
5.- Più recentemente, questa Corte ha ribadito (Cass. n. 8835/2011) che, ai sensi del vigente ordinamento della professione forense di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito con modificazioni nella L. 22 gennaio 1934, n. 36, l'attività di consulenza finanziaria svolta dall'avvocato deve reputarsi connessa - o comunque non estranea - rispetto a quella tipica della professione, con la conseguenza che i relativi redditi e volumi di affari vanno assoggettati a contribuzione ai sensi della L. 20 settembre 1980, n. 576, artt. 10 e 11, e successive modifiche. Ed ha precisato (cfr.
Cass. n. 14684/2012) come, al fine di stabilire se i redditi prodotti dall'attività di un libero professionista siano qualificabili come redditi professionali, soggetti, come tali, alla contribuzione dovuta alla Cassa previdenziale di categoria, il concetto di "esercizio della professione" debba essere interpretato non in senso statico e rigoroso, bensì tenendo conto dell'evoluzione subita nel mondo contemporaneo (rispetto agli anni cui risale la normativa di "sistema" dettata per la varie libere professioni) dalle specifiche competenze e dalle cognizioni tecniche libero professionali;
evoluzione che ha comportato (come opportunamente sottolineato in dottrina) la progressiva estensione dell'ambito proprio dell'attività professionale, con occupazione, da parte delle professioni, di tutta una serie di spazi inesistenti nel quadro tipico iniziale. Ne consegue che nel concetto in questione deve ritenersi compreso, oltre all'espletamento delle prestazioni tipicamente professionali (ossia delle attività riservate agli iscritti negli appositi albi), anche l'esercizio di attività che, pur non professionalmente tipiche, presentino, tuttavia, un "nesso" con l'attività professionale strettamente intesa, in quanto richiedono le stesse competenze tecniche di cui il professionista ordinariamente si avvale nell'esercizio dell'attività professionale e nel cui svolgimento, quindi, mette a frutto (anche) la specifica cultura che gli deriva dalla formazione tipologicamente propria della sua professione.
6.- Nè si è mancato di sottolineare (cfr. Cass. n. 14684/2012 cit.) che questa interpretazione, valida per tutte le categorie professionali e che si traduce nell'escludere la sussistenza dell'obbligo contributivo solamente nel caso in cui non sia, in concreto, ravvisabile un intreccio tra tipo di attività e conoscenze tipiche del professionista, è già stata suggerita dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 402 del 1991, resa a proposito del contributo integrativo dovuto dagli avvocati e procuratori iscritti alla Cassa di previdenza ai sensi della L. n. 576 del 1980, art. 11, comma 1, nella quale si è esplicitamente affermato che il prelievo contributivo in parola è collegato all'esercizio professionale e che per tale deve intendersi anche la prestazione di attività riconducibili, per loro intrinseca connessione, ai contenuti dell'attività propria della libera professione; in sostanza, le prestazioni contigue, per ragioni di affinità, a quelle libero professionali in senso stretto, rimanendone escluse solamente quelle che con queste non hanno nulla in comune.
7.- Nel caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto che non vi fossero elementi concreti per sostenere che i redditi in questione, derivanti dall'attività di consigliere di amministrazione di una società di capitali, potessero in qualche modo ricondursi all'esercizio dell'attività professionale di avvocato, non essendo emerso che la partecipazione del D.M. all'attività del consiglio di amministrazione avesse mai richiesto le stesse competenze tecniche di cui il professionista ordinariamente si avvaleva nell'esercizio dell'attività professionale. A fronte di una sentenza così motivata, la ricorrente si è limitata a svolgere, con il primo motivo, alcune considerazioni di carattere generale in ordine alla necessità di avere riguardo - in un'ottica interpretativa più attenta al contenuto attuale della professione forense - alla "natura della specifica attività svolta" o alla "natura tecnica dell'attività prestata", senza tuttavia indicare alcun elemento dal quale possa dedursi che, in concreto, l'attività svolta dal D.M. quale componente del consiglio di amministrazione della società Gama abbia assunto connotati tali da poter essere oggettivamente ricondotta a quella tipica della professione, sì che i relativi redditi e volumi di affari debbano essere assoggettati a contribuzione ai sensi della L. n. 576 del 1980, artt. 10 e 11. Da tanto consegue l'infondatezza del primo motivo ed il rigetto delle relative censure.
8.- Anche il secondo motivo deve ritenersi infondato. Come questa Corte ha già affermato (cfr. ex plurimis Cass. n. 19064/2006, Cass. n. 2155/2001), la violazione del precetto di cui all'art. 2697 c.c., si configura soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia - o meno - assolto tale onere, poichè in questo caso vi sarà soltanto un erroneo apprezzamento sull'esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5.
9.- Nella specie, come si è già detto, la Corte territoriale ha ritenuto che non vi fossero elementi concreti per sostenere che i redditi derivanti dall'attività di consigliere di amministrazione di una società di capitali potessero in qualche modo ricondursi all'esercizio dell'attività professionale di avvocato ed ha aggiunto che, dovendo l'obbligo dell'iscrizione alla Cassa previdenziale fondarsi su circostanze obiettive, inerenti alla natura dei redditi prodotti dall'attività professionale, tale obbligo non poteva "consolidarsi sulla scorta di erronee comunicazioni da parte del presunto obbligato", escludendo, quindi, che, in difetto di altri elementi, dette comunicazioni (e cioè quelle contenute nelle dichiarazioni dei redditi e nella domanda di iscrizione alla Cassa) potessero costituire prova della natura professionale dei redditi percepiti dal D.M. per la sua partecipazione al Consiglio di amministrazione della società Gama.
10.- Tale affermazione, che non si pone certo in contrasto con la disposizione dell'art. 2697 c.c., o con le altre norme di cui la ricorrente denuncia la violazione con il secondo motivo di ricorso, ben poteva essere impugnata sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), tenendo presente, però, che alla cassazione della sentenza per vizi della motivazione si può giungere solo quando tale vizio emerga dall'esame del ragionamento del giudice, quale risulta dalla sentenza, che si riveli incompleto, incoerente e illogico, non già quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis Cass. n. 9547/2010), e che - per il principio di autosufficienza - il ricorrente che denuncia, sotto il profilo di omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, l'omessa o erronea valutazione delle risultanze istruttorie ha l'onere di indicarne specificamente il contenuto (cfr. ex plurimis Cass. n. 15952/2007, Cass. n. 4178/2007) e, per quanto riguarda in particolare le prove documentali, di riprodurre nell'impugnazione il tenore esatto del documento, il cui omesso o inadeguato esame è stato censurato; solo in questo modo, infatti, può consentire al giudice di legittimità (al quale è istituzionalmente vietato di ricercare le prove direttamente negli atti di causa) di valutare la pertinenza e la decisività dei medesimi fatti.
Nel caso all'esame, la ricorrente, oltre a lamentare genericamente la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata su un punto decisivo della controversia, non ha riportato in ricorso il tenore esatto della documentazione di cui si discute (limitandosi a indicarne solo sinteticamente il contenuto ed a proporne un giudizio valutativo diverso da quello effettuato dalla Corte d'appello), sì che le censure espresse nel secondo motivo si risolvono, in definitiva, in una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dalla Corte d'appello, inidonea a radicare un deducibile vizio di motivazione di quest'ultima.
11.- In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con la conferma della sentenza impugnata.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate facendo riferimento alle disposizioni di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella A ivi allegata, in vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42, D.M. cit.).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 1.800,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2013