La dichiarazione di pubblica utilità nelle espropriazioni

 
 
 
 

Sotto il profilo storico, la prima legge che ha disciplinato il procedimento di espropriazione per pu è stata la L. 2359 del 1865, l'espropriazione era di competenza statale e, in particolare, del Prefetto. All'epoca non esistevano i piani regolatori. La prima fase del procedimento d'espropriazione era la dichiarazione di pubblica utilità dell'area, insita nella manifestazione della volontà di realizzare l'opera pubblica unitamente alla constatazione dell'insussistenza della proprietà pubblica.
 
A mente dell'art. 13 della L. n. 2359 del 1865, dovevano essere indicate, con la dichiarazione di pubblica utilità, la data di inizio e la data di fine dei lavori e la data di inizio e di fine della procedura espropriativa. Successivamente doveva essere proposto all'interessato l'acquisto dell'area per il "giusto prezzo". Proposta e depositata la somma la PA emetteva il decreto di esproprio.
 
Non esisteva l'occupazione d'urgenza preordinata all'esproprio. Esisteva, è vero, l'occupazione d'urgenza di cui agli artt. 70 72 e ss ma non era preordinata all'esproprio. Si trattava d'occupazioni d'urgenza finalizzate ad opere urgenti di riparazione di muri pericolanti, di argini e di ponti o al fine di realizzare l'opera sul fondo vicino e per appoggiare i materiali. Non esisteva, dunque, l'occupazione d'urgenza preordinata all'esproprio.

Le procedure espropriative dovettero, successivamente, armonizzarsi con le previsioni dei piani regolatori originariamente non previsti. Il piano regolatore generale è uno strumento di governo del territorio introdotto, per la prima volta, dalla legge 1150 del 1942 e precisamente previsto dall'art. 7. Nello strumento urbanistico era, così, prevista la possibilità di destinare determinate aree alla realizzazione dell'opera pubblica (si tratta delle localizzazioni). Erano, poi, previsti piani particolareggiati con i quali veniva data attuazione alle previsioni del piano regolatore generale e, con riferimento alle localizzazioni individuate dal PRG, veniva emessa l'implicita dichiarazione di pubblica utilità con l'approvazione del progetto dell'opera. Tuttavia,  già prima dell'approvazione dei piani attuativi, i vincoli degli strumenti urbanistici comportavano compressioni illimitate del potere di godimento del proprietario, in quanto i piani regolatori non avevano scadenza, ai sensi dell'art. 7. La perpetuità del vincolo comportava un'incisione del diritto di proprietà che la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi al riguardo, con sentenza 65 del 68, ha dichiarato illegittima in difetto di previsione di un indennizzo.

Nello stesso anno, con l'art. 2 della L. n. 1187 del 1968, il Legislatore stabiliva, dunque, che il vincolo preordinato all'esproprio poteva avere una durata massima quinquennale.
 
Entro i cinque anni dall'approvazione dello strumento urbanistico che comporti vincoli preordinati all'esproprio deve, dunque, essere avviato il vero e proprio procedimento espropriativo che inizia con la dichiarazione di pubblica utilità.
 
Le normative successive, ed in particolare l'attuale TU, hanno previsto che la dichiarazione di pubblica utilità non possa avere una durata superiore a cinque anni nel senso che, entro tale termine, deve concludersi il relativo procedimento espropriativo con l'adozione del relativo decreto di esproprio, preceduto dalla proposta di indennizzo.
 
L'occupazione d'urgenza preordinata all'esproprio si inserisce come procedimento parallelo a quello relativo all'espropriazione e diretto a porre rimedio al fatto che le amministrazioni non riuscivano a concludere il procedimento medesimo nel termine dei cinque anni ed al fatto che non si riusciva a realizzare l'opera. 
 
Avviato il procedimento espropriativo con la dichiarazione di pubblica utilità, si concedeva, dunque, all'amministrazione la possibilità di essere immessa nel possesso dell'area con l'occupazione d'urgenza preordinata all'esproprio. Si trattava, come chiarito, di un procedimento parallelo che iniziava con la dichiarazione di indifferibilità ed urgenza. Tale dichiarazione permetteva, nei tre mesi successivi, l'adozione di un decreto di occupazione d'urgenza. Il termine del legittimo possesso del terreno occupato era uguale a quello del procedimento di esproprio (cinque anni). Nella Legge n. 1 del 1978, volta ad accelerare la realizzazione delle opere pubbliche, è stata introdotta la figura della dichiarazione implicita d'indifferibilità ed urgenza che conseguiva all'approvazione definitiva del progetto. Quando veniva approvato il progetto definitivo dell'opera, l'atto di approvazione equivaleva contestualmente alla dichiarazione di pubblica utilità e di indifferibilità ed urgenza.

Su tale assetto della materia, vanno inquadrate le problematiche connesse agli aspetti patologici della procedura espropriativa. In particolare si pose la questione problematica di cosa accadesse se l'opera pubblica fosse stata realizzata fuori dei termini ovvero in difetto del provvedimento di esproprio. Con la sentenza della Corte di Cassazione n. 1464 del 1983, venne inrodotto nel nostro ordinamento il fenomeno descritto come occupazione acquisitiva, fenomeno del quale sono elementi costitutivi la dichiarazione di Pu una dichiarazione di indifferibilità ed urgenza esplicita od implicita, l'occupazione dell'area e l'irreversibile trasformazione del fondo, nonchè, infine, la scadenza del termine di occupazione legittima senza il decreto di esproprio. Tale vicenda realizza un acquisto della proprietà che si verifica con l'irreversibile trasformazione del fondo che legittima il privato proprietario ad agire per il risarcimento del danno. Diversa dall'occupazione era, poi, l'occupazione usurpativa dove, salva l'abdicazione del diritto di proprietà da parte del privato implicita o esplicita, la trasformazione irreversibile del suolo non dava luogo all'accessione invertita ed al privato rimaneva la possibilità di domandare la restituzione del fondo.
 
Nel 2000 la CEDU con le sentenze Belvedere ha affermato che la figura dell'occupazione acquisitiva non poteva consentire l'acquisto della proprietà del privato in quanto si trattava di un illecito e l'acquisto della proprietà per effetto di attività illecita violerebbe l'art. 1 del protocollo aggiuntivo della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo.
 
Nell'intento di risolvere il problema sollevato dalla CEDU, con il TU in materia di espropriazione fu introdotto l'art. 43 che prevede l'istituto dell'acquisizione sanante come strumento per sanare la surriferita vicenda patologica. Ove la PA acclari di aver svolto una procedura espropriativa non corretta e ritenga di mantenere l'opera nella sua proprietà dovrà, dunque, emanare un atto di natura gestionale con il quale dichiari di aver svolto la procedura in modo illegittimo, prevedendo contestualmente il risarcimento del danno e pagandolo.
 
Tale atto di acquisizione sanante deve e può, peraltro, essere trascritto nei registri immobiliare (mette, al riguardo, conto rilevare come, nell'ambito dell'occupazione acquisitiva, il proprietario formalmente rimaneva proprietario in quanto non esisteva un atto trascrivibile e la PA era diventata proprietaria sulla base di un illecito e di un fatto materiale). L'art. 43 prevede anche che l'amministrazione convenuta per la restituzione dell'area possa chiedere al giudice di essere condannata al risarcimento del danno con la conseguente paralisi della domanda restitutoria; in tal caso la sentenza ha lo stesso effetto dell'occupazione sanante e diventa, a sua volta, trascrivibile.

 Un tema su cui la Suprema Corte e il Consiglio di Stato non convergono è l'applicabilità temporale del nuovo art. 43 del Tu. Il punto è se si tratti di norma ordinamentale o processuale. Nel primo caso, l'art. 43 s'applicherebbe solo ai casi successivi (e si tratta dell'orientamento della Corte di Cassazione), nel secondo esso sarebbe applicabile anche ai casi pregressi (e si tratta dell'orientamento del Consiglio di Stato). Altro profilo che presenta posizioni non del tutto omogenee nella giurisprudenza della Suprema Corte e del Consiglio di Stato è quello inerente il riparto di giurisdizione.
 
Secondo l'orientamento del Consiglio di Stato (cfr. ad esempio Cds IV sezione 6636 del 2008), l'occupazione acquisitiva, come fattispecie d'acquisto della proprietà non esiste più (essa ha vissuto dal 1983 al 2003) in quanto, posta la possibilità di acquistare la proprietà con atto gestionale di acquisizione sanante o con la sentenza di cui all'art. 43 del TU, non residua ragione per il permanente riconoscimento dell'occupazione acquisitiva come fattispecie d'acquisto della proprietà in favore dell'amministrazione
 
Allorchè si versi ancora nei termini del decreto di esproprio non vi è, peraltro, ancora spazio per l'atto di acquisizione sanante (nel caso sottoposto al Giudice Amministrativo il privato proponeva un'azione ex art. 21 bis Legge Tar in quanto richiedeva l'adozione di un atto di acquisizione sanante; il giudice ha rigettato l'istanza sul rilievo che sino a che non sia scaduto il termine per il decreto di esproprio non può essere richiesta l'adozione di un atto di acquisizione sanante).

Per effetto dell'introduzione dell'art. 43 del TU in materia espropriativa nonchè per effetto delle sentenze Belvedere già richiamate, secondo il Consiglio di Stato, in difetto di una legittima procedura espropriativa, il privato rimane sempre titolare del diritto di proprietà del fondo e della connessa facoltà di chiederne la restituzione anche se il fondo sia stato irreversibilmente trasformato (salva la possibilità, per l'Amministrazione, di paralizzare l'azioe restitutoria a fronte del riconoscimento di un risarcimento del danno ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 43). L'Ad plenaria n. 2 del 2005 ha, al riguardo, osservato che, anche in caso di irreversibile trasformazione del fondo, l'amministrazione può sempre essere condannata alla restituzione del fondo anche laddove lo stesso sia stato irreversibilmente trasformato ove sussistano i presupposti di cui all'art. 2058 e 2933 cc, 2° comma valutando caso per caso.
 
L'Amministrazione diventa proprietaria del fondo, peraltro, anche allorchè il proprietario abdichi al proprio diritto di restituzione chiedendo il risarcimento; prima di ciò il proprietario può scegliere tra il risarcimento del danno e la restituzione. Il proprietario che chiede la restituzione del fondo può, peraltro, con una semplice memoria convertire la domanda in risarcimento del danno.
 
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Cassazione civile  sez. III 26 febbraio 1983 n. 1464

 

Nelle ipotesi in cui la pubblica amministrazione (o un suo concessionario) occupi un fondo di proprietà privata per la costruzione di un'opera pubblica e tale occupazione sia illegittima, per totale mancanza di provvedimento autorizzativo o per decorso dei termini in relazione ai quali l'occupazione si configura legittima, la radicale trasformazione del fondo, con l'irreversibile sua destinazione al fine della costruzione dell'opera pubblica, comporta l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all'ente costruttore, ed inoltre costituisce un fatto illecito (istantaneo, sia pure con effetti permanenti) che abilita il privato a chiedere, nel termine prescrizionale di cinque anni dal momento della trasformazione del fondo nei sensi indicati, la condanna dell'ente medesimo a risarcire il danno derivante dalla perdita del diritto di proprietà, mediante il pagamento di una somma pari al valore che il fondo aveva in quel momento, con la rivalutazione per l'eventuale diminuzione del potere di acquisto della moneta fino al giorno della liquidazione, con l'ulteriore conseguenza che un provvedimento di espropriazione del fondo per pubblica utilità, intervenuto successivamente a tale momento, deve considerarsi del tutto privo di rilevanza, sia ai fini dell'assetto proprietario, sia ai fini della responsabilità da illecito.

Consiglio Stato a. plen. 29 aprile 2005 n. 2

In caso di illegittimità della procedura espropriativa e di realizzazione dell'opera pubblica, l'unico rimedio riconosciuto dall'ordinamento alla p.a. per evitare la restituzione dell'area è l'emanazione di un legittimo provvedimento di acquisizione c.d. "sanante" ex art. 43 t.u. sulle espropriazioni per p.u. approvato con d.P.R. n. 327 del 2001 e con il riconoscimento al privato del ristoro del danno, in assenza del quale l'amministrazione non può addurre l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica quale causa di impossibilità oggettiva e quindi come impedimento alla restituzione.

La realizzazione dell'opera pubblica non fa venir meno l'obbligo per la p.a. di restituire il bene illegittimamente espropriato, se non viene emanato un provvedimento amministrativo di acquisizione ai sensi dell'art. 43 del t.u. delle espropriazioni, poiché la pretesa restitutoria non incontra il limite della eccessiva onerosità nè del pregiudizio derivante alla economia nazionale dalla distruzione della cosa.

Nel caso di annullamento in sede giurisdizionale degli atti inerenti alla procedura di espropriazione per pubblica utilità (dichiarazione di pubblica utilità e occupazione di urgenza), il proprietario dell'area può chiedere, mediante il giudizio di ottemperanza, la restituzione del bene invece che il risarcimento del danno per equivalente monetario, anche se l'area è stata irreversibilmente trasformata a seguito della realizzazione dell'opera pubblica; conformemente alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, deve ritenersi che la realizzazione dell'opera pubblica non costituisce impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente espropriata e ciò indipendentemente dalle modalità di acquisizione del terreno (occupazione appropriativa od usurpativa), che in tale ottica non assumono più rilevanza.

In caso di illegittimità della procedura espropriativa e di realizzazione dell'opera pubblica, il provvedimento formale c.d. "sanante" di acquisizione dell'area, assunto ai sensi dell'art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, in quanto fondato sulla "valutazione degli interessi in conflitto" deve contenere una motivazione particolarmente esaustiva, la quale non può far leva, ad esempio, sulla semplice utilizzabilità dell'immobile ovvero sulla sua astratta idoneità a essere utilizzato per il soddisfacimento di un interesse generale, facendo per contro riferimento la norma all'utilizzazione in atto per un interesse pubblico specifico e concreto.

Una domanda di restituzione del bene e riduzione in pristino, conseguente all'annullamento della dichiarazione di pubblica utilità e dei successivi atti della procedura espropriativa, costituisce una pretesa restitutoria, che non può essere preclusa da considerazioni fondate sull'eccessiva onerosità (art. 2058 c.c.) o sul pregiudizio derivante all'economia nazionale dalla distruzione della cosa (art. 2933 c.c.). La restituzione dell'area può essere preclusa solo dalla rinuncia, anche implicita della parte o dall'impossibilità oggettiva, che non è integrata dalla sola realizzazione dell'opera in assenza di un formale (e legittimo) provvedimento di acquisizione dell'area ai sensi dell art. 43 t.u. espropriazioni.
 
Consiglio Stato  sez. IV 30 dicembre 2008 n. 6636

L' art. 43 comma 1, d.P.R. 28 giugno 2001 n. 327, nella parte in cui prevede l' acquisizione da parte dell' Autorità del bene immobile da essa utilizzato per scopi di interesse pubblico e modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento ablatorio o dichiarativo di pubblica utilità, con contestuale risarcimento del danno sofferto dal proprietario, non è applicabile per mancanza del presupposto di legge nel caso in cui il procedimento espropriativo è ancora in corso, in conseguenza dell' avvenuta proroga della dichiarazione di pubblica utilità.

 
 
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