L’esatto adempimento delle obbligazioni pecuniarie in relazione al significato del principio nominalistico.
Approfondimento a cura di
avvocato del Foro di Trani
La non esatta esecuzione della prestazione dovuta da parte del debitore è fonte di responsabilità contrattuale. La norma dell’art. 1218 c.c. pone questo principio. A questo tipo di responsabilità, si affianca la responsabilità extracontrattuale il cui fondamento normativo è costituito dall’art. 2043 c.c. e ss. Tuttavia, sin da ora, occorre fare una precisazione terminologica: la responsabilità ex art. 1218 c.c. è definita ‘contrattuale’ in omaggio alla tradizione dottrinaria che si è prevalentemente occupata delle obbligazioni da contratto anche se le fonti delle obbligazioni sono plurime ex art. 1173 c.c. In questa polarizzazione delle attenzioni della dottrina sulla ‘responsabilità contrattuale’ ha avuto un ruolo importante la struttura del codice civile italiano il quale, a differenza di alcuni codici civili continentali, non prevede il ‘contratto’ come categoria dogmatica autonoma, dedicando ad essa un libro, ma esso è fatto oggetto di studio come una obbligazione particolare.
Sorta l’obbligazione, si pone, per il debitore, l’onere di eseguire esattamente la prestazione dedotta; in difetto, scatta a carico del debitore la responsabilità da inadempimento che comporta il risarcimento del danno in favore del creditore, a meno che il debitore dimostri che l’inadempimento o il ritardo siano dipesi da un’impossibilità derivante da causa non imputabile allo stesso debitore. Tuttavia, la norma dell’art. 1218 c.c. non indica cosa è l’esatto adempimento: questo sia perché le previsioni normative sono generali e astratte sia perché l’esatto adempimento varia a seconda della natura della prestazione dedotta in obbligazione. L’esatto adempimento può essere definito come la esattezza del dovuto al soggetto abilitato a riceverlo, nel tempo e nel luogo convenuti. L’esattezza della prestazione potrebbe essere compromessa da cause imputabili al debitore (mancanza di volontà, negligenza), o non imputabili ad esso (caso fortuito, per esempio). La responsabilità da inadempimento prevista in parte dall’art. 1218 c.c. si completa con la previsione dell’art. 1176 c.c.: tale duplice fondamento della responsabilità in esame rischia di risolversi in un’antinomia. E infatti, l’art. 1176 c.c. pone la diligenza quale regola di condotta in vista dell’adempimento della prestazione, specificando che tale regola va declinata avendo riguardo alla natura dell’attività esercitata se si tratta dell’adempimento di un’obbligazione inerente l’esercizio di un’attività professionale. Nella prospettiva di tale norma, ai fini dell’adempimento rileva un atteggiamento soggettivo: se la condotta del debitore è stata diligente, questi è liberato dall’obbligazione. Sembra invece che l’art. 1218 c.c., al fine di valutare l’esatto adempimento, non si accontenta di valutare il comportamento del debitore in termini di diligenza/negligenza ma privilegia un aspetto oggettivo: se c’è inadempimento, scatta la responsabilità del debitore, salvo che l’inadempimento non dipenda da cause estranee al dominio finalistico del debitore medesimo. A questo punto, sembrerebbe che nel codice civile italiano esistano due norme che prevedono due differenti criteri di valutazione dell’inadempimento: l’art. 1176 c.c., in base al quale è sufficiente la prova che il debitore sia stato diligente, ai fini dell’esonero da responsabilità, nonostante l’inadempimento, e l’art. 1218 c.c. che esige la prova rigorosa che l’inadempimento dipende da una causa estranea alla sua sfera di diligenza.
In dottrina, si sono storicamente attestate tre teorie. La prima, facente capo all’Osti, che privilegia nell’art. 1218 c.c. un profilo oggettivo, secondo la quale c’è inadempimento se l’obbligazione resta ineseguita e il debitore è liberato solo quando e se prova l’oggettiva impossibilità della prestazione, dimostrando così di non versare in colpa: in questa prospettiva, l’art. 1176 c.c. non serve per determinare la responsabilità da inadempimento della prestazione ma svolge la sua funzione di regola di condotta nei confronti del debitore che adempie alla prestazione dovuta, quando questa non fosse sufficientemente determinata. Secondo tale teoria, l’art. 1176 c.c. e l’art. 1218 c.c. sono due norme sganciate.
A questa teoria si oppone quella che, invece, valorizza l’art. 1176 c.c. al fine di valutare l’inadempimento contrattuale e che fa capo a Natoli. Secondo la prospettiva suggerita da questa teoria, l’art. 1218 c.c. non precisa la misura dell’impossibilità scriminante; tale misura è importante per apprezzare il grado di impossibilità della prestazione e, in mancanza di ulteriori elementi normativi, l’indice di sicura affidabilità, anche per porre rimedio all’arbitrio del giudicante, è rappresentato dall’art. 1176 c.c. Ne deriva che l’impossibilità della prestazione, rilevante per escludere la responsabilità da inadempimento del debitore, deve essere relativa e soggettiva: cioè, occorre guardare alla diligenza prestata dal debitore nell’esecuzione della prestazione per poter addivenire a un giudizio di responsabilità da inadempimento a suo carico.
Fra queste due teorie, si è inserita la tesi mediana del Bianca, il quale, riconducendo la diatriba teorica sul piano processuale della prova, afferma che la prova dell’impossibilità deve essere fornita, avuto riguardo al debitore, sottolineandone l’aspetto relativo e soggettivo, in riferimento allo sforzo del soggetto in vista del conseguimento dell’adempimento esatto. In questa prospettiva, la prestazione deve essere possibile alle condizioni iniziali: se queste mutano in corso di esecuzione, questa è inesigibile. Dal punto di vista pratico, questa teoria pone in secondo piano l’aspetto puramente dogmatico, privilegiando la tutela del debitore sul piano processuale, della prova soggettiva e relativa. La lettura congiunta degli artt. 1176 e 1218 c.c. ha trovato notevole riscontro nella giurisprudenza di legittimità la quale, tuttavia, non ha adottato un orientamento maggioritario; a fronte dell’orientamento dottrinale proposto da Natoli, che offre il riferimento all’agente modello per valutare se il debitore vada esente da responsabilità, la giurisprudenza della Suprema Corte, seguendo le orme del Bianca, evidenzia la necessità di riferirsi al criterio della diligenza, ex art. 1176 c.c., che consente al debitore, dal punto di vista probatorio, di andare esente se dimostra di essere stato diligente. Altrimenti, l’art. 1176 c.c. non servirebbe a nulla.
Le obbligazioni pecuniarie rappresentano la categoria di obbligazioni sicuramente più diffusa nella pratica commerciale: esse hanno ad oggetto una somma di denaro. Esse costituiscono oggetto di disciplina normativa degli artt. 1277 – 1284 c.c.; inoltre, vanno tenute presenti le norme che disciplinano il luogo di adempimento dell’obbligazione (art. 1182 co. 3 c.c.) e i danni sulle obbligazioni pecuniarie (art.1224 c.c.).
La specialità di disciplina si giustifica in ragione della peculiarità dell’oggetto dell’obbligazione: il denaro non viene in rilievo solo come res ma emerge nella sua funzione di strumento di scambio e/o mezzo di pagamento. La disciplina dell’intero settore si completa alla luce del principio nominalistico, del principio di naturale fecondità del denaro edel principio degli interessi moratori.
L’art. 1277 co. 1 c.c. codifica il principio nominalistico: in base al dettato della norma, le obbligazioni pecuniarie si estinguono in conformità del loro importo nominale. Nel comma 2, si afferma che il pagamento effettuato con moneta non avente più corso legale libera solo se è fatto con l moneta corrente ragguagliata al valore della prima. Benchè si tratti di una modalità estintiva anacronistica che riflette un’economia piccola e poco complessa, considerando l’epoca di emanazione del codice civile, essa afferma che al momento della scadenza del termine per adempiere, il debitore si libera pagando l’importo originariamente dovuto al tempo in cui è sorta l’obbligazione. Conseguenza immediata dell’applicazione di questo principio è l’irrilevanza delle fluttuazioni del valore reale (potere d’acquisto) del denaro, a tutto vantaggio del debitore in caso di inflazione e del creditore nel caso, più teorico che concreto, di deflazione. Il soggetto debole del rapporto è tenuto dunque ad adempiere la prestazione utilizzando la stessa quantità di moneta, in base al valore nominale che lo Stato ad essa attribuisce hic et nunc, senza alcun riferimento al valore intrinseco del denaro medesimo. La certezza nelle obbligazioni pecuniarie circa l’oggetto di esse (e il vantaggio per il debitore) è compensata da meccanismi di difesa dall’inflazione (per tutelare le ragioni creditorie): tali strumenti, ampiamente diffusi nella pratica commerciale, sono di natura negoziale o legale. Queste clausole operano indicizzando l’importo del debito originario all’andamento di determinati indici – valori (indici ISTAT, clausole oro, clausole merci etc) o attraverso la pattuizione della facoltà di rinegoziazione del corrispettivo o di recesso in presenza di determinate circostanze. Le clausole legali sono quelle introdotte attraverso interventi legislativi (legge sull’equo canone, indicizzazione dell’assegno di divorzio etc.). Di natura giurisprudenziale sono invece i correttivi della creazione della figura dei debiti di valore da distinguere dai debiti di valuta. Dibattuta è la questione dell’ammissibilità di deroghe giudiziali al principio nominalistico: ci si chiede se il giudice può intervenire per correggere gli effetti dell’inflazione. Il principio nominalistico è principio di ordine pubblico in alcuni ordinamenti giuridici europei (Francia, Germania): in questi ordinamenti è esclusa la possibilità di intervenire convenzionalmente e si ammette la possibilità per il giudice di intervenire per controllare la perdita del potere di acquisto della moneta e sul conseguente squilibrio economico rispetto alle prestazioni dovute. In Italia, è precluso al giudice un intervento prettamente economico nel sinallagma contrattuale, potendo egli operare un intervento normativo; il profilo economico è rimesso alla libera volontà delle parti. In dottrina, si registrano due orientamenti opposti. La tesi favorevole, pur fra tanti distinguo, parte dalla considerazione che il sindacato del giudice italiano sull’equilibrio economico del contratto è un rimedio di carattere eccezionale e che l’unica norma che potrebbe essere utilizzata è l’art. 1467 c.c. in materia di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità: in presenza di un fenomeno inflattivo eccezionale e imprevedibile, al momento della conclusione del contratto, si profila l’onerosità sopravvenuta postulata dalla norma e, di conseguenza, le parti possono chiedere giudizialmente la risoluzione del contratto in fieri o la reductio ad aequitatem delle condizioni di squilibrio. L’orientamento minoritario eccepisce che è proprio il principio nominalistico, quale principio generale dell’ordinamento, a giustificare le oscillazioni di valore del denaro; inoltre, il riferimento all’art. 1467 c.c. non è di aiuto perché l’elemento imprevedibile richiesto dalla norma è riferibile soltanto al contratto e non ad avvenimenti esterni, come la svalutazione monetaria, e generali che vanno ad incidere su una pletora di rapporti.
L’esame dell’art. 1277 c.c. pone all’attenzione dell’interprete altri due principi: quello del principio liberatorio, secondo il quale la moneta avente corso legale non può essere legittimamente rifiutata come mezzo di pagamento; e il principio del valore nominale della valuta, in base al quale la moneta avente corso legale deve essere conteggiata secondo il suo valore nominale. L’art. 1277 c.c., stabilendo che i debiti pecuniari devono essere estinti mediante moneta avente corso legale nello Stato, non esclude che il pagamento possa avvenire attraverso altri titoli che attestino in modo certo un credito liquido ed esigibile verso lo Stato o un istituto bancario. Il riferimento è ai c.d. mezzi di pagamento alternativi al denaro, come il conto corrente postale, il vaglia postale, il libretto postale o bancario, l’ assegno, la carta di credito, per citarne alcuni, i quali garantiscono al portatore di conseguire la somma di denaro in esso indicata pur non essendo denaro, nella forma della banconota o della moneta metallica, ma titoli nominativi. In un sistema economico evoluto come quello dei nostri giorni, alcune forme di pagamento alternative al denaro hanno sostituito la moneta contante sia per assicurare una maggiore celerità nei pagamenti (ad esempio, il bonifico bancario avviene per via telematica) sia per correre rischi minori quando si tratta di somme elevate, pagabili più facilmente con assegni o carte di credito. Da questo punto di vista, l’assegno bancario ha raggiunto una tale diffusione da rappresentare una forma usuale di pagamento alternativo al denaro contante che garantisce la circolazione di somme di denaro, anche ingenti, senza il rischio legato al trasporto materiale di tali somme. Sarebbe in errore colui che ritiene che questi mezzi di pagamento alternativi sono documenti diversi dal denaro e non rappresentano mezzi generali dell’acquisto di beni: anzi, per il prenditore comportano l‘onere di verificare la legittimazione del titolare e l’autenticità del titolo e, nel caso dell’assegno bancario, di verificare l’esistenza della provvista presso la banca.
Secondo l’orientamento tradizionale, in dottrina e in giurisprudenza, il pagamento avvenuto a mezzo di strumenti alternativi al denaro contante, non è equiparabile, sic et simpliciter, al pagamento mediante somme di denaro (è questa l’unica forma di adempimento esatto di un’obbligazione pecuniaria, ex art. 1277 c.c.) ma configura un’ipotesi di datio in solutum, con conseguente necessità che il creditore presti il suo consenso in base all’art. 1197 c.c. Da questo arresto, deriva il dubbio circa la possibilità del creditore di rifiutare senza giustificato motivo il pagamento offerto dal debitore col ricorso a strumenti di pagamento alternativi al denaro e pretendere che avvenga con denaro contante, pena l’inadempimento e gli effetti della mora del creditore.
In giurisprudenza, le risposte sono state molteplici. L’ammissibilità per il creditore di rifiutare il pagamento a mezzo di assegno circolare si scontra con il fatto che tale mezzo di pagamento consentirebbe al debitore di adempiere esattamente in quanto è un titolo che, in ragione del soggetto emittente e della modalità di circolazione, è idoneo ad assicurare al creditore la facile e certa convertibilità in denaro della somma ivi indicata. Questo ha rappresentato il pomo della discordia dalla quale sono emersi due orientamenti in seno alla giurisprudenza di legittimità, contrapposti e fondati dal punto di vista normativo.
Secondo l’orientamento maggioritario, il creditore di una somma di denaro non è tenuto ad accettare in pagamento titoli di credito, benchè assistiti da particolari garanzie di solvibilità. Questo assunto si basa sul comma 1 dell’art. 1277 c.c., che afferma che i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale. Di conseguenza, l’assegno costituisce uno strumento di pagamento che non estingue il debito in quanto la sua dazione al creditore si intende fatta pro solvendo; l’efficacia estintiva conseguirà solo quando il creditore avrà l’effettiva disponibilità della somma di denaro dovuta. Secondo tale orientamento, la consegna di un assegno circolare in luogo del pagamento in moneta corrente e contante violerebbe un triplice ordine di disposizioni: l’art. 1277 c.c. co. 1, in quanto norma dispositiva, derogabile soltanto dalla volontà del creditore; l’art. 1197 c.c., perché sostanzierebbe una datio pro solvendo, senza il consenso del creditore; l’art. 1182 c.c., perché il domicilio del creditore è sostituito con la sede dell’istituto bancario presso cui è riscuotibile l’assegno. Di conseguenza, il creditore non potrebbe rifiutare un assegno dato in pagamento qualora abbia prestato il consenso a ciò e/o quando esiste una pratica costante fra le parti in tal senso e/o quando la datio in solutum è consentita dagli usi negoziali.
L’indirizzo minoritario affronta la tematica in esame dalla prospettiva offerta dall’art. 1175 c.c. Si osserva infatti che il pagamento mediante assegno circolare, pur non equivalendo al pagamento in contanti, estinguerebbe l’obbligazione qualora il rifiuto del creditore appare contrario alle regole della correttezza che impongono a quest’ultimo l’obbligo di prestare la sua collaborazione all’adempimento dell’obbligazione. Infatti, siccome l’emissione di un assegno circolare può avvenire solo da parte di un istituto di credito a ciò autorizzato, il quale deve avere presso la Banca d’Italia un deposito cauzionale a garanzia di tutti gli assegni emessi dallo stesso, il creditore non può legittimamente rifiutarsi di ricevere un assegno circolare in pagamento in quanto l’assegno assicura al legittimo portatore la sicurezza di conseguire la somma di denaro in essi indicata e la facilità della loro circolazione. Se dunque il creditore non ha motivi per dubitare della regolarità e dell’autenticità dei titoli e non ha un interesse apprezzabile a ricevere il denaro in luogo dei titoli, la consegna degli assegni circolari estingue l’obbligazione di pagamento, salva sempre la clausola del buon fine dell’assegno. Con ciò, si esclude che il rifiuto capriccioso del creditore impedisce al debitore di adempiere esattamente la propria obbligazione. Il contrasto giurisprudenziale appena delineato è stato composto dalle S.U. della Cassazione con la pronuncia n. 26617 del 18 dicembre 2007, che dovrebbe aver definitivamente spento il rigore che ha caratterizzato l’orientamento giurisprudenziale dominante sino alla data della pronuncia.
Tale pronuncia delle S.U. parte dalla imprescindibile considerazione che la realtà sociale ed economica è in continua evoluzione e che il sistema dei pagamenti altrettanto velocemente si evolve verso una sempre maggiore smaterializzazione del denaro e, di conseguenza, il diritto reale sui pezzi monetari si trasforma in diritto di credito di una determinata somma di denaro. La S.C. non ha potuto fare a meno di constatare una serie di cambiamenti intervenuti nella realtà moderna, nel corso del tempo: dal punto di vista socio – economico, l’assegno – circolare e bancario – è divenuto mezzo normale di pagamento; la circolazione del denaro avviene con strumenti sempre più sofisticati che prescindono dalla materiale apprensione del denaro, per esigenze di sicurezza e celerità dei traffici; di conseguenza, alla disciplina codicistica degli anni ’40, si affianca una legislazione innovativa che ha introdotto, e spesso ha reso obbligatori, i sistemi alternativi di pagamento.
Tutto ciò premesso, i giudici della S.C. hanno proposto un’interpretazione evolutiva, costituzionalmente orientata, dell’art. 1277 c.c. che va oltre il tenore letterale della norma e che ne adegui il contenuto alla realtà. L’espressione ‘moneta avente corso legale nello Stato’ allora vuol dire che i mezzi monetari impiegati devono riferirsi al sistema valutario nazionale: le S.U. sottolineano che l’oggetto del pagamento ex art. 1277 c.c. non è la moneta intesa in senso fisico e materiale ma è rappresentato dal valore monetario o quantità di denaro. Alla luce di questa interpretazione dell’art. 1277 c.c., sono ammissibili altri sistemi di pagamento alternativi purchè garantiscano al creditore la disponibilità della somma di denaro a lui dovuta dal debitore. Inoltre, nelle obbligazioni pecuniarie, il debitore ha facoltà di pagare, salvo che per legge sia imposta una diversa modalità di pagamento, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare. Poi, naturalmente, se il debitore paga in moneta, il creditore non può rifiutare il pagamento e l’effetto liberatorio si verifica al momento del pagamento tramite la consegna della somma di denaro; se invece il debitore paga con assegno circolare o altro mezzo di pagamento alternativo che assicuri al creditore la disponibilità della somma dovuta, il creditore può rifiutare il pagamento solo per giustificato motivo che deve allegare e provare; in questo caso, il comportamento del creditore va valutato in base alle regole di correttezza e buona fede oggettiva e l’effetto liberatorio si verifica quando il creditore acquista la concreta disponibilità della somma.
Con la pronuncia 4 giugno 2010 n. 13658, le S.U. hanno esteso all’assegno bancario le conclusioni raggiunte nel 2007 in punto di assegno circolare. A differenza dell’assegno circolare, che è emesso dalla banca, l’assegno bancario è emesso dal cliente dell’istituto di credito e, pertanto, i rischi connessi all’esistenza presso l’istituto di riferimento della necessaria provvista sono maggiori. Secondo tale pronuncia, il creditore che rifiuta di accettare un pagamento non sarebbe sempre contrario a buona fede, fermo restando che l’obbligo di buona fede e di correttezza costituisce, ex art. 2 Cost., un dovere giuridico autonomo applicabile in ambito contrattuale che impone di mantenere un comportamento leale, volto alla salvaguardia della utilità altrui nei limiti del sacrificio apprezzabile. Concludono le S.U., richiamando le conclusioni del 2007, cui si è brevemente accennato, che a nulla vale la distinzione fra assegno circolare o bancario perché la necessità di osservare le regole di correttezza e di buona fede, intesa in senso oggettivo, nella valutazione del comportamento del creditore costituisce l’imprescindibile fondamento logico di ogni mezzo di pagamento offerto.