Gli atti che il proprietario dell'immobile ponga ine ssere al solo fine di indurre il conduttore dell'immobile a recedere dal contratto di locazione configurano, ad avviso della Corte di Cassazione, la fattispecie del mobbing immobiliare
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Il mobbing è un fenomento ampiamente noto nel settore del lavoro ove così viene sinteticamente definita la strategia persecutoria che si realizza in azienda da parte dei superiori gerarchici o anche da colleghi di pari livello del lavoratore al fine di isolare quest'ultimo o di estrometterlo dal contesto aziendale. Si tratta di un illecito che, nell'ambito del rapporto di lavoro, trova il suo titolo fondante nel contratto di lavoro e nella violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. che discende da tale contratto. Il datore di lavoro viene, infatti, ritenuto responsabile contrattualmente per non avere garantito un'organizzaizone del lavoro tale da preservare il lavoratore dalla vicenda del mobbing.
In anni recenti, il mobbing ha trovato, tuttavia, altri ambiti applicativi, si è tentato, ad esempio, di introdurre la figura del mobbing come illecito civile anche nella vita familiare, allo stato con esito non positivo - Cass. sez. 1, 19 giugno 2014 n. 13983 -, ampiamente controbilanciato peraltro dalla fattispecie penale parimenti "plurima" di cui all'art. 572 c.p.; invero la figura dell'illecito composto necessariamente da una pluralità di condotte che si protraggono nel tempo sussiste pure nel settore penale, dove è recentemente stata incrementata dalla fattispecie di cui all'art. 612 bis c.p.ad esempio nell'ambito familiare.
Con una recente pronuncia, la S.C. si è occupata di una peculiare vicenda, cassando la sentenza del giudice dell'appello che aveva dichiarato inammissibile la relativa domanda di risarcimento ex art. 2043 c.c., caratterizzata dal fatto che, nell'ambito di un contratto di locazione cessato, l'ex conduttore lamentava di essere stato vittima di una serie di iniziative giudiziali infondate da parte del proprietario tese ad indurlo ad abbandonare l'immobile stesso.
La Corte d'Appello di Roma aveva dichiarato l'inammissibilità della domanda ritenendo che la tutela del conduttore avrebbe dovuto essere somministrata nell'ambito dei singoli procedimentyi giurisdizionali infondati intentati dal proprietario ove la parte attrice avrebbe potuto essere condannata per lite temeraria. La Suprema Corte ha, condivisibilmente, sul punto ritenuto la motivazione della Corte d'Appello eccentrica rispetto alla domanda formulata e affermando che le condotte lamentate dal ricorrente di cd. “mobbing immobiliare” possono considerarsi astrattamente foriere di danni risarcibili.
La sentenza in esame si pone nel solco delle recenti aperture giurisprudenziali in materia di tutela dell'individuo e di risarcimento del danno, configurando una nuova ipotesi di responsabilità risarcitoria da cosiddetto “mobbing immobiliare”, finora rimasta al di fuori dell'attenzione della dottrina e delle corti.
La questione prospettata presenta anche evidenti punti di contatto con la tematica dell'abuso del processo, tant'è che la Corte d'Appello di Roma respingeva la domanda ritenendo che il ricorrente avrebbe dovuto fare valere tali doglianze tramite lo strumento dell'art. 96 c.p.c. nell'ambito dei singoli procedimenti subiti.
Detta impostazione, come rileva la stessa Cassazione, si fonda, tuttavia, su un equivoco. Non vi è dubbio che le condotte lamentate dal ricorrente fossero riconducibili latu sensu all'abuso del processo, ma l'ipotesi di illecito non riguardava l'esperimento di singoli procedimenti, quanto piuttosto la complessiva condotta dei proprietari finalizzata a ottenere il rilascio dell'immobile.
Cassazione civile, sez. III, 28/02/2017, n. 5044
3.8 L'ottavo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e vizio motivazionale in ordine alla domanda di risarcimento da mobbing immobiliare.
La motivazione al riguardo sarebbe mancante o apparente. Infatti, il mobbing immobiliare consisterebbe nelle pressioni, anche illegali, dei proprietari "per cacciare gli inquilini" allo scopo di sfruttare meglio l'immobile o in relazione ad un piano di trasformazione urbanistica. Secondo il ricorrente dal 1995 "la proprietà ha iniziato tutta una serie di azioni, tutte documentate e tutte risoltesi in favore dell'avv. V., con l'unico scopo di risolvere il contratto di locazione" (al riguardo il ricorrente opera riferimento ai documenti 6-11 del fascicolo di primo grado). E "una simile serie di azioni giudiziarie nei confronti del medesimo soggetto, tutte infondate e temerarie, tanto da essere sempre rigettate, costituiscono indebita e scorretta forma di pressione sul ricorrente, costretto a subire un pesante stato di stress"; e sarebbe "evidente come siffatte azioni siano chiaramente intentate al solo scopo di "convincere" il conduttore a rilasciare l'immobile"; il ricorrente sarebbe stato "praticamente sempre sotto perenne minaccia di sfratto per motivi ignoti".
Rileva altresì il ricorrente che ai sensi dell'art. 1575 c.c. il locatore è obbligato ad assicurare al conduttore il pacifico godimento (cfr. pure gli artt. 1585 e 1586 c.c.). Nel caso in esame le condotte del locatore "potevano essere oggetto (sic) di risoluzione anticipata della locazione con richiesta di risarcimento danni"; tuttavia "per il diritto privato italiano" il mobbing immobiliare sarebbe tutelabile solo attraverso l'art. 2043 c.c., della cui fattispecie emergerebbero qui i requisiti. Ma la corte territoriale si sarebbe limitata a dichiarare inammissibile l'azione, affermando che il V. avrebbe potuto agire ex art. 96 c.p.c., azione questa che però ha requisiti diversi rispetto a quella esercitata dal V.. Non vi sarebbe alcuna inammissibilità e comunque la motivazione risultebbe apodittica e apparente, non avendo d'altronde il giudice d'appello preso "neppure minimamente in esame la documentazione acquisita nel corso dell'istruttoria".
In effetti, in ordine alla domanda risarcitoria per mobbing immobiliare il giudice d'appello così motiva: "Parimenti inammissibile è anche la domanda risarcitoria motivata dal c.d. mobbing immobiliare e cioè dalle iniziative giudiziarie intraprese in suo danno dall'Enasarco, nel corso del tempo, per ottenere il rilascio dell'immobile locatogli, la cui responsabilità, eventualmente, avrebbe dovuto essere fatta valere, di volta in volta, in relazione ai singoli procedimenti, che si assumono temerariamente intrapresi, ai sensi dell'art. 96 c.p.c.".
La motivazione è chiaramente eccentrica rispetto all'oggetto in ordine al quale avrebbe dovuto essere fornita: si limita infatti la corte ad asserire che vi erano i presupposti per agire ex art. 96 c.p.c. in ogni procedimento temerario avviato da locatore nei confronti del conduttore. Non si vede come ciò possa attenere al c.d. mobbing immobiliare, poichè, nell'ipotesi in cui vi sia stata effettivamente una protratta condotta illecita di molestia e pressione come prospettata dal V., l'illecito non sarebbe stato identificabile nell'avvio del singolo procedimento, e dunque non sarebbe stata certo identificabile la correlata difesa, anche sul piano risarcitorio della reintegrazione della sfera giuridica lesa, in ogni singolo procedimento mediante appunto l'azione ad esso accessoria regolata dall'art. 96 c.p.c.. Invero, il V. ha prospettato un illecito commesso nei suoi confronti dalla Fondazione Enasarco che si sarebbe realizzato, unitariamente e gradatamente, mediante una sequenza continuativa di pressione giudiziaria: ed è per questo che si avvale dell'espressione "mobbing", talora utilizzata se per integrare l'illecito occorre non un'unica condotta, bensì una pluralità di condotte moleste e/o discriminanti non considerate singolarmente bensì nella loro intrinseca connessione, da cui appunto discende l'illiceità in riferimento a tale fattispecie ontologicamente "plurima" (il caso tipico di un illecito che viene composto da una pluralità di condotte, talvolta anche singolarmente lecite, unificate dallo scopo illecito è ben noto nel mobbing attuato - non necessariamente dal datore di lavoro - nell'ambiente lavorativo - cfr. p. es. Cass. sez. L, 3 marzo 2016 n. 4222, Cass. sez. L, 19 febbraio 2016 n. 3291, Cass. sez. L, 6 agosto 2014 n. 17698, Cass. sez. L, 7 agosto 2013 n. 18836 e Cass. sez. L, 17 febbraio 2009 n. 3785; si è di recente tentato di introdurre la figura del mobbing come illecito civile anche nella vita familiare, allo stato con esito non positivo - Cass. sez. 1, 19 giugno 2014 n. 13983 -, ampiamente controbilanciato peraltro dalla fattispecie penale parimenti "plurima" di cui all'art. 572 c.p.; invero la figura dell'illecito composto necessariamente da una pluralità di condotte che si protraggono nel tempo sussiste pure nel settore penale, dove è recentemente stata incrementata dalla fattispecie di cui all'art. 612 bis c.p.).
La corte non ha affatto esaminato l'esistenza o meno di una simile sequenza persecutoria della Fondazione nei confronti del V., come se non possa essere configurabile - il che, come si è visto, non può condividersi - un illecito composto da una pluralità di condotte poste in essere in un anche ampio lasso temporale, bensì si è limitata, si ripete, a dare atto della proponibilità ex art. 96 c.p.c. dell'azione per lite temeraria in ogni singolo procedimento (la domanda risarcitoria "avrebbe dovuto essere fatta valere, di volta in volta, in relazione ai singoli procedimenti" ex art. 96 c.p.c.). Il fatto che sussista una tutela specifica per la lite temeraria ovviamente non ha alcuna pertinenza con l'ipotesi in cui vi sia una condotta persecutoria che si sia concretizzata proprio nella continuativa pluralità di iniziative giudiziarie nei confronti del molestato; e che il punto di vista manifestato nella motivazione dal giudice d'appello fosse assolutamente eccentrico rispetto alla domanda viene per di più confermato dalla - indubbiamente singolare, e comunque per nulla spiegata - qualificazione di questa come inammissibile.
Tale assoluto grado di eccentricità conduce, in ultima analisi, a ritenere effettivamente assente la motivazione sulla domanda risarcitoria in questione, per cui il motivo deve essere accolto, cassando in relazione la sentenza con rinvio ad altra sezione della corte territoriale.
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