malfomazioni fetali e responsabilità medica

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L’accertamento del nesso di causalità in tema di responsabilità del medico per omessa informazione

Il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è un diritto tutelato dagli artt. 2 e 13 Cost.

La responsabilità per nascita indesiderata coinvolge, alla luce di recenti sviluppi giurisprudenziali, sia il medico, sia la struttura sanitaria, i quali, nel caso in cui il paziente sia una donna in stato di gravidanza, assumono degli obblighi di protezione non solo nei confronti della donna, ma anche nei confronti del padre e del nascituro.
 
La Suprema Corte è, di recente, intervenuta in tema di responsabilità medica, soffermandosi sull’accertamento della sussistenza del nesso di causalità tra l’omessa rilevazione e comunicazione della malformazione del feto e il mancato esercizio, da parte della gestante, della facoltà di ricorrere all’interruzione di gravidanza (Cass. Civ. sentenza n. 22837 del 10 novembre 2010). Nella fattispecie al vaglio della Corte, i genitori del bambino avevano agito contro i medici e contro la struttura sanitaria per ottenere il risarcimento dei danni, in quanto la madre, non essendo stata informata della grave patologia del nascituro non era stata posta in condizione di scegliere se interrompere la gravidanza o meno.
 
I Giudici di secondo grado avevano ritenuto di rigettare la domanda dei genitori del bambino che avevano agito per il risarcimento danni, poiché gli attori non avevano provato, né dedotto, il grave pericolo per la salute fisica o psichica cui la madre, superati i 90 giorni di gestazione, si sarebbe trovata esposta se fosse stata informata della malformazione. 
 
A tal proposito, è opportuno premettere che la legge n. 174 del 22 maggio 1978 consente, dopo i primi 90 giorni di gestazione, l’interruzione della gravidanza “solo a tutela della salute della donna” qualora la gravidanza o il parto comportino un “grave pericolo” per la vita della stessa o qualora vengano accertati processi patologici per il nascituro che mettano in pericolo lo stato psico-fisico della donna e che non consentano la possibilità di vita autonoma del feto.
 
La Suprema Corte, riformando la sentenza impugnata, ha stabilito che: “In tema di responsabilità del medico da nascita indesiderata, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità tra l’omessa rilevazione e comunicazione della malformazione del feto e il mancato esercizio, da parte della madre, della facoltà di ricorrere all'interruzione volontaria della gravidanza, è sufficiente che la donna alleghi che si sarebbe avvalsa di quella facoltà se fosse stata informata della grave malformazione del feto, essendo in ciò implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per farvi ricorso, tra le quali (dopo il novantesimo giorno di gestazione) v'è il pericolo per la salute fisica o psichica derivante dal trauma connesso all'acquisizione della notizia, a norma dell'art. 6, lett. b), della legge n. 194 del 1978”
 
La Suprema Corte ha, pertanto, ritenuto che al fine di provare la sussistenza di un nesso di causalità tra l’omessa comunicazione della malformazione del feto e il mancato esercizio dell’interruzione di gravidanza sia sufficiente la semplice “allegazione” da parte della madre di tale possibilità, essendo in ciò implicita la sussistenza dei requisiti previsti dalla L. n. 174/78 per farvi ricorso, e che, pertanto, in mancanza di contestazioni, non necessitino ulteriori mezzi di prova.
 
La domanda attorea era stata infatti posta in questi termini: sin dall’atto introduttivo, la madre aveva affermato che se fosse stata informata della grave patologia del feto avrebbe interrotto la gravidanza. Tale affermazione -che, peraltro, i medici convenuti non avevano contestato in alcun modo- secondo i giudici della Suprema Corte consisterebbe in un’implicita affermazione della sussistenza di un grave pericolo per la salute psico-fisica della donna, derivante dal trauma connesso all’acquisizione della notizia, e quindi sarebbe sufficiente a dimostrare la ricorrenza di quel requisito, previsto dall’art. 6, lett. b), della L. n.174 del 1978, per poter ricorrere all’interruzione di gravidanza dopo il 90° giorno di gestazione, consistente proprio nel grave pericolo per la salute psico-fisica della donna.
 
La necessità di provare concretamente tale possibilità, invece, ricorrerebbe solo nel caso in cui vi sia contestazione da controparte. Solo in caso di contestazione, dunque, il giudice sulla base di un giudizio probabilistico, correlato all’epoca della gravidanza e ancorato al noto principio del “più probabile che non”, dovrà stabilire se, in caso di comunicazione alla donna dell’accertamento della patologia del feto da parte dei medici, sarebbe insorto o meno nello stessa uno stato depressivo suscettibile di essere qualificato come “grave pericolo per la salute psico-fisica della donna”. Nell’ambito di tale valutazione, il giudice dovrà basarsi su dati di comune esperienza, anche evincibili dall’analisi dei fenomeni sociali, da cui è facilmente deducibile l’altissima frequenza con cui si ricorre a interruzioni cd. terapeutiche della gravidanza. 
 
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