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proposta e accettazione
conclusione del contratto mediante inizio di esecuzione
il contratto di opzione
il contratto unilaterale
l'offerta al pubblico
obbligo a contrarre e contratto imposto
il contratto per adesione
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La puntuazione o minuta costituisce la documentazione degli accordi già raggiunti in fase di trattative precontrattuali. In tale senso, una questione da sempre dibattuta è quella di distinguere la puntuazione che rimane nella fase delle trattative dal contratto concluso. Il punto controverso riguarda il momento in cui il contratto può dirsi concluso. Al riguardo, si è assistito ad un'evoluzione del pensiero giurisprudenziale. In una prima fase si riteneva che l'accordo sugli elementi essenziali del contratto avrebbe determinato la sua conclusione nonostante le parti si fossero riservate la negoziazione in ordine agli elementi accessori. In una seconda fase la giurisprudenza ha richiesto, ai fini della conclusione del contratto, che l'accordo fosse raggiunto su elementi essenziali ed accessori salva la possibilità di dimostrare che vi era la volontà di vincolarsi contrattualmente già al momento dell'accordo sugli elementi essenziali. La tesi oggi prevalente in giurisprudenza è quella che sia necessario ai fini della conclusione del contratto che l'accordo sia raggiunto su elementi essenziali ed accessori e che vi sia la volontà di vincolarsi. All'esito del percorso giurisprudenziale è dunque possibile distinguere una minuta incompleta che documenta l'accordo sui specifici punti del futuro regolamento contrattuale e la minuta completa laddove l'accordo è raggiunto su tutti i punti del futuro regolamento ma le parti decidono di rinviare il momento dell'assunzione del vincolo. In caso di minuta completa, tuttavia, ha precisato la giurisprudenza, sussiste una presunzione di avvenuta conclusione del contratto. Ovviamente distinguere la minuta dal contratto concluso comporta numerose conseguenze di rilievo come, ad esempio, il titolo di responsabilità da imputare al soggetto inadempiente (responsabilità contrattuale in caso di contratto o precontrattuale in caso di minuta).
Cass Civ Sez I, 20 giugno 2006 n 14627
Ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale, è necessario che tra le parti sia raggiunta l'intesa su tutti gli elementi dell'accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l'intesa solamente su quelli essenziali ed ancorché riportati in apposito documento, risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori. Pertanto, anche in presenza del completo ordinamento di un determinato assetto negoziale, può risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell'attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto, il cui accertamento, nel rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli art. 1362 ss. c.c., è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in cassazione ove sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
Con sentenza in data 28 marzo 1997 n. 697, il Tribunale di Genova respinse tutte le domande proposte dai signori M.M., F.G., B.d.C.V. (anche come successore a titolo universale di B.d.C.C.), M.L., anche quale procuratore di M.A. e P.L., e D.M.C.D.V.N., quale Procuratore Generale di M.G., nei confronti dei convenuti signori A., Ar., e Z.L., L.A., e C.D.L.M.E., che avevano ad oggetto l'asserita violazione dei patti parasociali stipulati dalle parti in causa.
Secondo l'esposizione degli attori, il 9 marzo 1989 essi, unitamente alla signora C., da un lato, e i convenuti - con esclusione del signor L. dall'altro avevano stipulato un patto, denominato in causa "protocollo", con il quale avevano convenuto: - a) l'acquisto da parte della Gregorio Cortese s.p.a., controllata dagli attori, dell'intera partecipazione nella Zerbone Catering s.r.l., controllata dai convenuti; - b) la ripartizione del capitale della Gregorio Cortese s.p.a. in determinate percentuali in capo a ciascuna delle parti in causa, escluso il L.; - c) la previsione di una clausola statutaria che richiedesse la maggioranza dei 2/3 per le deliberazioni di aumento di capitale; - d) la ripartizione degli amministratori e dei sindaci, in ciascuna delle due società, tra i due gruppi (amministratori e sindaci del gruppo Zerbone sarebbero stati in maggioranza nella controllata Zerbone Catering s.r.l. e in minoranza nella controllante Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a.; - e) la riproduzione dell'accordo in separate scritture per opera di due professionisti ai quali le parti avrebbero conferito mandato congiunto. In conseguenza di tali operazioni il gruppo Zerbone aveva acquisito, per il corrispettivo di circa L. dieci miliardi, il 45% per capitale della Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a.. Il protocollo, redatto in unica copia, era stato fiduciariamente consegnato ad un commercialista di fiducia del gruppo Zerbone. I patti relativi alla rappresentanza negli organi sociali e al quorum deliberativo, tuttavia, non erano mai stati trasfusi in modificazioni statutarie. In violazione dei patti stipulati - i quali, secondo la tesi attrice, prevedevano nel 45% la percentuale massima di capitale della Ristoranti Gregorio Cortese, che poteva essere controllata, in modo diretto o indiretto, dai fratelli Z. - questi ultimi avevano acquisito dalla signora C. un'ulteriore quota del 6% del capitale della Ristoranti Gregorio Cortese, raggiungendo così la quota del 51% del capitale.
Successivamente lo stesso gruppo Zerbone aveva rifiutato le fideiussioni personali necessaria per accodare al credito bancario, al fine di far fronte all'indebitamento della società (causato dalle spese sostenute per l'acquisizione della Zerbone Catering).
Le trattative svoltesi al riguardo tra l'agosto e il dicembre 1991 erano state vanificate dai soci Z., che intendevano invece cedere alla Costa Armatori s.p.a. una rilevante partecipazione nella Zerbone Catering, e, a tal fine, sostituire l'organo amministrativo con altro di loro completa fiducia, che non ostacolasse la progettata cessione al gruppo Costa.
Tra il 21 e il 24 dicembre 1991 era stato messo a punto, con l'intervento del signor L., amministratore della Zerbone Catering s.r.l. e persona di fiducia del gruppo Zerbone, dichiaratosi in possesso di tutti i poteri necessari a trattare per loro conto, un accordo che prevedeva; - a) la cessione della partecipazione Zerbone Catering dalla Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a. al gruppo Zerbone;
- b) la cessione della partecipazione del gruppo Zerbone Catering nella Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a. al gruppo Macciò Fogliani;
- c) un conguaglio a favore di questo di L. 8.250.000.000 (salvo verifica); - d) la cessione dalla Zerbone Catering alla Ristoranti Gregorio Cortese della Ristoranti A. Benigno s.p.a. al costo effettivo da imputarsi fino a concorrenza di L. 3.160.000.000; - e) il pagamento del conguaglio in quattro rate semestrali con un interesse del 5% annuo; f) il trasferimento degli uffici della Gregorio Cortese s.p.a. e il riconoscimento da parte di Zerbone Catering della somma di L. 150 milioni. Restava invece da definire la sorte della partecipazione della C., per la quale il gruppo Macciò Fogliani faceva valere un'opzione, mentre il gruppo Zerbone richiedeva un corrispettivo prossimo a L. 1.000.000.000. In un successivo momento gli Z. si erano dichiarati indisponibili all'esecuzione di questo secondo accordo.
Gli attori avevano chiesto il risarcimento dei danni conseguiti a quei comportamenti, denunciati come contrari a correttezza e buona fede, e in particolare di quelli provocati dalla vendita della rilevante partecipazione nella Zerbone Catering s.r.l al gruppo Costa, che era stata realizzata dopo la notifica dell'atto di citazione, e la dichiarazione d'inefficacia della cessione della partecipazione C. agli Z.. I convenuti avevano contestato che fossero stati perfezionati accordi che prevedessero l'inalienabilità delle quote di partecipazione nella Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a., o il divieto d'incremento della partecipazione nella stessa società, e che nel dicembre del 1991 fossero stati conclusi degli accordi vincolanti.
L'appello, proposto dai soccombenti, fu respinto dalla Corte d'appello di Genova, con la sentenza 21 settembre 2001. La Corte considerò innanzi tutto che, secondo la sentenza di primo grado, la signora C. non aveva partecipato direttamente alle trattative nè alla formazione del protocollo del 9 marzo 1989, che nella circostanza non era rappresentata da altri (in particolare, dal signor M.M.), che non era allegato che la stessa avesse partecipato alle trattative del 1991 sulla sorte della sua partecipazione, escludendosi anzi che, in ordine ad essa fosse stato raggiunto un accordo tra le stesse altre parti. La Corte osservò, quindi, che. in ordine a quegli accertamenti non erano state formulate specifiche censure con l'appello, e ritenne che questo, in quanto diretto contro la stessa C., fosse inammissibile.
Sei resto, la corte condivise il giudizio del Tribunale, circa la mancanza di prova del contenuto del patto del 9 marzo 1989, non acquisito agli atti. La discussione sulla rilevabilità d'ufficio, da parte del primo giudice, della nullità della prova testimoniale assunta era irrilevante, perchè in concreto non era stata assunta alcuna prova testimoniale della conclusione di un accordo parasociale sull'immodificabilità futura del limite massimo di partecipazione sociale dei soci del gruppo Zerbone, e ciò, anche perchè il capitolo di prova specificamente diretto a provare quel patto non era stato ammesso, dandosi per certo - in base alla stessa esposizione degli attori - che il patto non era stato formulato espressamente, e che esso dovesse ricavarsi attraverso un'interpretazione complessiva dell'accordo, che non poteva essere demandata ai testimoni. Neppure v'era stata confessione in giudizio di un simile patto. Poichè poi era certo che il patto in questione non emergeva dal testo del protocollo, redatto in unico esemplare ed affidato alla custodia di un professionista di parte Z., la superfluità del controllo testuale del documento escludeva la ricorrenza della necessita della sua acquisizione attraverso l'ordine di esibizione. In mancanza di prova del patto in questione, rimaneva assorbita l'ulteriore questione - estranea alla ratio decidendi della sentenza di primo grado - della sua eventuale invalidità, per violazione del principio della determinazione delle obbligazioni sotto il profilo temporale.
La Corte ritenne, poi, priva di fondamento la domanda di risarcimento del danno lamentato dagli appellanti in conseguenza del comportamento del signor Ze.Ar., il quale aveva acquistato dalla Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a. la partecipazione in Zerbone Catering s.r.l., per un prezzo corrispondente a circa la metà di quello per il quale l'aveva rivenduta alla Costa Crociere s.p.a.. Un tale danno, secondo la corte, si era prodotto nella sfera della società che aveva alienato la partecipazione, e non poteva essere fatto valere come danno proprio dei soci della medesima. A parte ciò, nessun altro danno - riconducibile sotto il profilo causale all'accordo del 9 marzo 1989 - era stato allegato dagli appellanti.
Ciò doveva ritenersi, in particolare, per la contestata legittimità degli aumenti di capitale in Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a., oggetto peraltro di un'azione di mero accertamento per la quale non era stato enunciato un interesse giuridico apprezzabile; e per l'addebito, formulato in termini vaghi, di aver reso precaria la situazione finanziaria della s.p.a. Ristoranti Gregorio Cortese.
Passando ad esaminare le domande collegate alle trattative del dicembre 1991, la corte condivise il giudizi del tribunale, circa il mancato raggiungimento della prova della conclusione del contratto sui punti concordati, con esclusione di altri punti controversi, e ritenne che l'essenzialità delle pattuizioni non concluse, rispetto alle altre facenti parte del complessivo contesto negoziale, avesse quale conseguenza che il mancato accordo su di esse si ripercuotesse sulle altre. Neppure era ravvisabile una responsabilità precontrattuale, sia perchè l'essenzialità e la gravità delle questioni irrisolte inducevano ad attribuire a normale e giustificata prudenza, invece che a pretestuosità, la variabilità delle determinazioni dei contraenti circa l'insieme degli accordi perseguiti, in relazione alla possibilità di garanzie ulteriori dipendenti dalle pattuizioni non concluse; e sia perchè l'aperta discussione su quei punti aveva salvaguardato il dovere di buona fede sotto il profilo specifico dell'informazione della controparte circa le situazioni e le ragioni che potevano ostacolare la conclusione del negozio.
Circa le domande proposte specificamente contro il signor L., la corte ritenne che la denunciata mancanza del potere rappresentativo del gruppo Zerbone, speso nelle trattative, non fosse provata, e che il mancato perfezionamento dell'accordo parziale raggiunto con lui, da parte del gruppo Zerbone, non fosse in alcun modo collegato al prospettato difetto di potere rappresentativo.
Per la cassazione di questa sentenza ricorrono per parti soccombenti, con atto notificato il 5 novembre 2002, per sette motivi.
Resistono la signora C., con controricorso notificato il 14 dicembre 2002, e, separatamente, gli altri intimati, con controricorso notificato 14 dicembre 2002.
Sia i ricorrenti e sia i resistenti hanno depositato memoria illustrativa.
Con il primo motivo di ricorso si censura la dichiarazione, nell'impugnata sentenza, d'inammissibilità dell'appello proposto contro la signora C., per difetto di censure specifiche agli argomenti con i quali il tribunale ne aveva escluso la legittimazione passiva. Si denunzia a questo riguardo la violazione o errata applicazione di norme processuali, e in particolare dell'art. 342 c.p.c. in tema di specificità dei motivi d'appello. I ricorrenti sostengono che il tribunale, come contraddittoriamente si desumerebbe anche dall'impugnata sentenza, non aveva dichiarato il difetto di legittimazione passiva - e pertanto nessuna censura contro una tale pronuncia poteva essere proposta - ma si era limitato ad escludere che vi fosse prova della partecipazione della signora C. agli accordi del 1989; e che questa affermazione era stata specificamente censurata in appello con il richiamo ad affermazioni confessorie. La censura sarebbe contenuta nelle prime sei pagine dell'appello, dove si dava compiutamente conto delle circostanze dedotte in narrativa, in particolare laddove si affermava che la C. era stata rappresentata nelle trattative da M.M.; e nelle pagine da 21 a 31 dell'atto medesimo (oltre che nella comparsa conclusionale in appello) in cui si dava specificamente atto degli elementi di prova da cui si desumeva che la C. era effettivamente rappresentata da M.M.. infine, la tesi esposta in conclusionale d'appello, dell'affidamento legittimo nel potere rappresentativo della signora C. in capo al socio M.M., non ampliava inammissibilmente il thema decidendum, come ritenuto dalla Corte territoriale, perchè si basava su elementi già acquisiti e su domande risarcitorie già proposte, e costituiva al più una qualificazione del rapporto diversa, da quella anteriormente indicata, ma consentita.
Il motivo, per la parte in cui può essere esaminato nel presente giudizio di legittimità, si traduce nell'affermazione che la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciare sull'appello proposto contro la signora C., dichiarandolo inammissibile sulla base di un'errata applicazione del principio di specificità dei motivi d'appello. Esso è infondato.
La Corte genovese ha deciso sul punto in esame basandosi sul rilievo che l'accertamento di fatto del giudice di primo grado, circa l'estraneità della signora C. ai patti parasociali del 9 marzo 1989, non era stato specificamente censurato. Il giudizio, ispirato ai comuni criteri circa il requisito di specificità dei motivi d'appello, non viola la disposizione richiamata, e costituisce esplicazione del compito d'interpretazione della domanda di gravame, che la legge processuale riserva al giudice del merito (Cass. 26 aprile 2001 n. 6066, e 2 marzo 2001 n. 3016).
Si può aggiungere che una diversa conclusione non sarebbe giustificata neppure in base all'altro indirizzo giurisprudenziale (al quale i ricorrenti fanno ripetuto riferimento), per il quale la riserva al giudice di merito dell'interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti non trova applicazione, quando si assume che tale interpretazione abbia determinato vizi riconducibili nell'ambito dell'art. 112 c.p.c., perchè in tali oasi, deducendosi "errores in procedendo", la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere dovere di procedere direttamente all'esame ed all'interpretazione degli atti processuali (in questo senso, da ultimo, Cass. 22 gennaio 2004 n. 1079). La lettura dell'appello, infatti, con il riscontro dei passi richiamati (quantunque in modo generico) dai ricorrenti, non conferma l'assunto che nell'atto di appello sarebbero state formulate, con riferimento al giudizio di estraneità della signora C. al cosiddetto "protocollo", censure specifiche. Tali, infatti, non sono quelle che si limitano all'individuazione del punto della sentenza di primo grado che si intende impugnare, richiedendosi inoltre che esse svolgano gli argomenti per i quali si sostiene l'erroneità della decisione. Censure siffatte non si rinvengono certamente nelle prime sei pagine dell'appello, contenenti la mera esposizione dei fatti allegati dalla parte in primo grado: non si può, infatti, assegnare il ruolo di mezzo di gravame all'affermazione, riferita in quella sede tra le allegazioni degli attori nell'introduzione del giudizio, che la signora C. sarebbe stata rappresentata dal socio M.M.. Non v'è censura, ma solo esposizione del giudizio del tribunale, neppure nello svolgimento dei motivi dell'appello, laddove, richiamando la sentenza gravata, si riferisce quanto accertato dal primo giudice, che, cioè, i fratelli Z. avevano acquistato la quota della socia C., considerata dagli attori - bensì - parte integrante del loro schieramento, ma che non aveva partecipato direttamente alla trattativa e alla formazione dell'accordo. Ancor meno può ravvisarsi una censura nella trascrizione del capitolo di prova formulato sulla pattuita ripartizione del capitale (in cui alla socia C. era stata riservata una quota del 15%), o nell'affermazione (funzionale all'interpretazione complessiva del "protocollo") che la supposta libertà del fratelli Z. di acquistare altre quote, come poi fecero con quella della signora C., avrebbe vanificato gli effetti dell'accordo.
Da ultimo - e con riferimento alla tesi, esposta per la prima volta in comparsa conclusionale di appello, dell'affidamento incolpevole degli odierni ricorrenti nella ritenuta partecipazione della socia C. al Protocollo - si deve condividere il giudizio della corte territoriale, che in tale prospettazione era contenuta un'inammissibile dilatazione del thema decidendum, comportando essa l'estensione del dibattito processuale dal tema della partecipazione della socia agli accordi a quello, basato su circostanze di fatto diverse, del comportamento colposo della stessa parte falsamente rappresentata (la necessità del quale è stata costantemente affermata da questa Corte: v., tra le più recenti, 12 gennaio 2006 n. 408; 13 agosto 2004 n. 15743; 23 luglio 2004 n. 13829; 10 gennaio 2003 n. 204; 29 aprile 1999 n. 4299; 22 aprile 1999 n. 3988), che avrebbe giustificato l'affidamento degli altri soci. Il mezzo d'impugnazione è pertanto da respingere.
Con il secondo motivo di ricorso si censura la ritenuta inammissibilità della prova testimoniale sul contenuto dell'accordo concluso tra le parti nel 1989, l'omessa considerazione di altre prove acquisite sul medesimo punto, e la motivazione con la quale era stata negata l'esibizione dei documenti, contenenti il patto medesimo, in possesso di terzi.
Si sostiene che il divieto di utilizzare la prova testimoniale già assunta non poteva basarsi sull'art. 1352 c.c., perchè non era mai stato prospettato un accordo in merito all'adozione della forma scritta del cosiddetto protocollo, oggetto della prova; che in ogni caso altre prove erano state acquisite al processo, ed indebitamente ignorate dal giudice di merito. Infine, la prova orale non poteva trovare ostacolo neppure nell'art. 2725 c.c. in relazione all'art. 2724 c.c., n. 3, salvo ad ammettere quell'ordine di esibizione del documento, posseduto dal terzo, che la Corte territoriale aveva contraddittoriamente negato. Nell'ultima parte del mezzo in esame, infatti, la censura del rigetto della domanda di esibizione del documento contenente il "protocollo" si basa sulla contraddizione tra il precedente assunto, della mancata prova del patto che limitava la partecipazione dei fratelli Z. al capitale della Ristoranti Gregorio Cortese, e l'affermazione che il documento contenente quel patto non sarebbe rilevante ai fini della decisione.
Le censure di violazione o di falsa applicazione di legge, nonchè di vizi di motivazione "su un punto decisivo", sopra sintetizzate, sono infondate. Nell'impugnata sentenza, dopo lo svolgimento delle considerazioni, censurate col mezzo in esame, circa la rilevabilità d'ufficio della violazione del divieto della prova orale, il punto ritenuto decisivo è chiaramente enunciato laddove - in dichiarato contrasto sia con la sentenza di primo grado e sia con l'impostazione degli appellanti - si afferma che nella fattispecie non si poneva un problema di verifica postuma dell'ammissibilità di una prova testimoniale, perchè non emergeva dalla difesa degli appellanti, nè dall'esame del materiale istruttorio, una prova di fonte testimoniale dell'avvenuta conclusione tra le parti di un accordo parasociale avente quale contenuto - integrativo di quello di cui al "protocollo" - l'immodificabilità futura del limite massimo della partecipazione sociale del gruppo Zerbone; e che, anzi, lo stesso tribunale, nell'ammettere la prova testimoniale, ne aveva escluso - con ordinanza non impugnata - proprio il capitolo sulla circostanza che quegli accordi prevedessero espressamente che la percentuale massima di partecipazione della gruppo Zerbone al capitale della Ristoranti Gregorio Cortese non potesse superare il 45% dell'intero, siccome diretto non a descrivere ma ad interpretare i patti.
Discende da ciò, che tutte le censure, vertenti sugli argomenti con i quali era stata motivata (dal tribunale) l'inammissibilità della prova testimoniale già assunta in ritenuta violazione delle norme di legge richiamate, sono dirette contro un punto non decisivo della sentenza d'appello, nella quale la decisione poggia in definitiva sull'argomento che la prova invocata dagli appellanti non poteva in concreto giovare al loro assunto, laddove questo vertesse sull'esistenza di un patto esplicito e specifico d'immodificabilità della distribuzione del capitale sociale (come doveva supporsi, in forze del principio che, per la sua ammissibilità, la prova deve vertere su una quaestio facti e non direttamente sull'interpretazione di un negozio).
Circa le altre prove acquisite agli atti, l'odierno motivo di ricorso sollecita - nella forma apparente di denuncia di un error in procedendo, al quale si appoggia la richiesta di un esame diretto degli atti da parte della Corte - una valutazione delle prove raccolte in causa, peraltro già esaminate dalla corte territoriale (la quale ha espressamente escluso l'esistenza di una confessione), inammissibile in questa sede di legittimità (le violazioni degli artt. 115 e 116 c.p.c., richiamate in rubrica, sono apprezzabili nei limiti del vizio di motivazione descritto nell'art. 360 c.p.c, comma 1, n. 5., e devono pertanto emergere direttamente dalla lettura della sentenza, e non già dal riesame degli atti: cfr. Cass. 12 febbraio 2004 n. 2707).
Infine, e con riguardo al tema dell'ordine di esibizione del documento, negato dalla corte genovese, il punto deve essere considerato dall'angolatura offerta dagli stessi ricorrenti, i quali chiariscono di aver sostenuto in causa che il patto d'immodificabilità del tetto del 45%, posto alla partecipazione dei soci Z. nella Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a., doveva desumersi da una serie di clausole (e, innanzi tutto, dalla ripartizione degli amministratori e sindaci nella medesima società, deducendosi che la previsione della riserva di in gruppo di consiglieri di amministrazione alla minoranza non avrebbe avuto senso, se la minoranza poteva acquisire la maggioranza azionaria, e con ciò il controllo del consiglio di amministrazione), tutte provate in punto di fatto, e delle quali neppure il giudice di merito ha negato l'esistenza.
Ciò premesso, l'affermazione dell'impugnata sentenza, che il patto d'immodificabilità delle partecipazioni al capitale non emergesse dal testo letterale del protocollo, mentre non contraddice la precedente affermazione d'inesistenza di prove orali circa l'accordo esplicito sul patto medesimo, è poi sostanzialmente confermata nel ricorso, dove si espone nitidamente l'argomento - logico, e non letterale - sul quale era fondato l'assunto interpretativo degli appellanti. Da ciò lo stesso giudice ha tratto correttamente la conclusione della superfluità dell'esibizione del documento. Pur riconoscendo l'astratta legittimità della richiesta di un'interpretazione complessiva delle clausole contrattuali, egli ha infatti negato la necessità dell'esibizione, perchè ha dato per già provato il contenuto letterale delle clausole alle quali i ricorrenti attribuiscono il valore decisivo nella ricostruzione della volontà comune.
Ebbene, neppure gli argomenti logici, portati a sostegno dell'interpretazione del protocollo nel senso dell'esistenza di un patto implicito d'immodificabilità, sono stati ignorati dalla Corte territoriale, che ha ritenuto l'argomento interpretativo proposto non condivisibile nel caso concreto, perchè i patti parasociali provati - tra i quali era compreso anche quello sulla composizione degli organi amministrativi - potevano esplicare apprezzabili effetti anche senza il patto d'immodificabilità del tetto di partecipazione dei fratelli Z. al capitale.
In tal modo, la corte territoriale ha espresso un giudizio di merito, come tale non direttamente sindacabile da questa Corte. Le altre considerazioni, oggetto di censura, e vertenti sull'impossibilità di un'interpretazione complessiva del documento non disponibile, del quale al tempo stesso si negava la necessità dell'esibizione, appaiono superflue nell'economia della decisione, sicchè l'illogicità censurata non verterebbe in ogni caso sul punto decisivo, e non integrerebbe 11 vizio dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il terzo motivo di ricorso verte sulla validità del divieto di modifiche della composizione del capitale a tempo indeterminato, stante la possibilità di recesso.
Il mezzo è assorbito dal rigetto di quello precedente, vertente appunto sulla prova della esistenza di un tale patto.
Il quarto motivo verte sul rigetto della domanda di risarcimento danno subito in conseguenza della vendita della partecipazione in Zerbone Catering ad Ze.Ar., e la successiva rivendita di essa al gruppo Costa ad un prezzo doppio. La sentenza impugnata ha negato la risarcibilità del danno in questione, perchè sopportato dalla Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a. e non dagli appellanti. Si censura questa affermazione, sostenendo che la manovra denunciata era diretta a far conseguire i vantaggi dell'operazione ai soli soci componenti del gruppo Zerbone, con esclusione dei soci ricorrenti, che ne avevano risentito un danno costituito dalla privazione della quota di utile alla quale avevano diritto. La giurisprudenza in tema di danno diretto subito dal socio, citata nella sentenza impugnata, che si riferisce all'azione di responsabilità proposta dal socio nei confronti degli amministratori, sarebbe inapplicabile alla fattispecie, in cui si tratta di un'azione proposta da alcuni soci direttamente nei confronti di altri, per la violazione del patto sociale.
Con riguardo a questa violazione si sostiene anche che la nozione di utile deve essere intesa in senso molto lato, essendo ben possibile che i soci ricavino il vantaggio derivante dall'attività sociale "direttamente", e non per il tramite della, società. La Corte territoriale, infine, sarebbe incorsa nel vizio di omessa pronuncia sul danni, conseguenti ad altri comportamenti, indicati nelle conclusioni nn. 5, 6 e 7 dell'atto di appello.
La censura è infondata. Questa corte ha bensì riconosciuto che il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375) si applica anche ai rapporti tra i soci di una società di capitale, dopo la sua costituzione e per tutto il corso del suo svolgimento (Cass. 26 ottobre 1995 n, 11151); e da tale principio non intende discostarsi nel caso concreto. Si deve anzi riconoscere che norme isolate dell'ordinamento prevedono ora casi particolari nei quali il socio che controlla la società risponde direttamente nei confronti degli altri soci per il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale (art. 2497 c.c.; nelle società a responsabilità limitata vi sono casi nei quali i soci rispondono in solido con gli amministratori degli atti dannosi per la società: v.
art. 2476 c.c., comma 7). Ha queste considerazioni non influenzano la decisione nel caso presente.
In primo luogo, infatti, nell'impugnata sentenza la responsabilità degli appellati non è stata esclusa movendo da premesse diverse da quelle sopra ricordate, che dispenserebbero i soci dall'osservanza del principio di buona fede, giacchè la corte territoriale si è astenuta da ogni valutazione sull'elemento soggettivo dell'illecito denunciato dagli odierni ricorrenti. In secondo luogo, la domanda è stata respinta solo perchè il danno allegato non era un danno diretto al patrimonio degli appellanti. E questo giudizio è immune da censure.
Secondo la prospettazione dei ricorrenti, il trasferimento a terzi della partecipazione sociale avrebbe comportato un vantaggio ai soli componenti del gruppo Zerbone, che nel trasferimento intermedio avrebbero lucrato la differenza rispetto al prezzo da loro pagato alla società. Tuttavia, poichè alienante era appunto la Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a., il danno sarebbe stato esclusivamente di quest'ultima, e, se anche dei soci del gruppo Fogliani - Macciò, solo per il medio del danno al patrimonio della società alienante, partecipata sia dai ricorrenti e sia dagli altri soci. Ciò posto, non è pertinente il richiamo dei ricorrenti al precedente di Cass. 6 agosto 1979 n. 4556 (peraltro isolato: contra, v. la recente 12 aprile 2005 n. 7536, in motivazione), secondo cui la nozione di lucro soggettivo, nel contratto di società, non richiederebbe necessariamente la sua preventiva acquisizione al patrimonio della società, per la successiva distribuzione tra i soci. Al contrario dell'utilità diretta che i soci possono trarre dalla loro partecipazione alla società, per le prestazioni che questa offra loro (alle quali si fa riferimento in quella sentenza), il danno allegato in questo caso sarebbe stato, infatti, subito dai ricorrenti indirettamente, per il fatto di partecipare alla società danneggiata.
D'altra parte, neppure risulta - dalla sentenza impugnata e dal ricorso oggi all'esame della corte - che un problema di ammissibilità del risarcimento di un danno indiretto fosse stato sottoposto in termini puntuali al giudice di merito, perchè il danno allegato dai ricorrenti non è individuato in relazione al valore della loro partecipazione, e quindi mediato dalle risultanze di bilancio della società partecipata, ma direttamente in relazione al minor prezzo conseguito dalla società per la vendita della partecipazione; e, dovendosi escludere la legittimazione dei soci a far valere direttamente i danni subiti dalla società, si comprende il senso del richiamo, nell'impugnata sentenza, alla giurisprudenza elaborata in tema di azione di responsabilità del socio (art. 2395 c.c.).
Quanto alle altre domande risarcitorie, quelle richiamate nel ricorso hanno ad oggetto l'accertamento di un danno corrispondente a quello fin qui esaminato (punto 5 dell'atto di appello), o di altri comportamenti (aver reso precaria la situazione finanziaria della società opponendosi all'acquisizione di finanziamenti a condizioni vantaggiose) posti espressamente in diretta relazione finalistica con quello (punto 6) e dunque solo attraverso di esso produttivo di danno, e la consequenziale pronuncia di condanna (punto 7) che quantifica il danno in relazione alla differenza tra la il prezzo di alienazione della partecipazione ai soci Z. e quello del successivo trasferimento. La pronuncia di rigetto censurata con il mezzo in esame verte dunque proprio sulle domande per le quali, senza fondamento, si denuncia l'omessa pronuncia.
Con il quinto motivo di ricorso, denunciandosi la violazione di norme in materia di prove e di formazione del contratto, e vizi di motivazione connessi, si censurano le statuizioni con le quali la Corte territoriale ha escluso sia la formazione di un accordo parziale vincolante nelle trattative del dicembre 1991, e sia la responsabilità precontrattuale per il mancato perfezionamento di quelle trattative su altri punti. Circa la conclusione di un accordo, sarebbe stata ignorata la confessione di Z.L., confermata dalle dichiarazioni del L., che aveva indicato i punti oggetto dell'accordo concluso: non poteva pertanto il giudice entrare nella valutazione della essenzialità di altri punti.
Quest'ultima doglianza, circa l'emessa valutazione del carattere confessorio delle dichiarazioni raccolte in causa - peraltro riportate nel ricorso in modo che non consente di ravvisarvi una contraddizione con il giudizio, espresso nell'impugnata sentenza, che l'accordo sul punto determinante della prestazione delle garanzie fosse stato procrastinato - è questione di puro apprezzamento delle prove, e come tale riservata al giudice di merito.
Anche le altre doglianze, che vertono sul disconosciuto carattere vincolante dei patti conclusi dalle parti, sulla base di un'inammissibile apprezzamento giudiziale circa il loro carattere più o meno essenziale, sono infondate. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte, ai fini della configuratilità di un definitivo vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l'intesa su tutti gli elementi dell'accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l'intesa solamente su quelli essenziali ed ancorchè riportati in apposito documento, risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori (con la precisazione che, anche in presenza, del completo ordinamento di un determinato assetto negoziale, può risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell'attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto, il cui accertamento, nel rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e segg. cod. civ., è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in Cassazione ove sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici:
v. Cass. 18 gennaio 2005 n. 910; conf. 7 aprile 2004 n. 871).
Nella specie, la corte territoriale ha accertato che i punti sui quali si era formato il consenso facevano parte di un'unica trattativa, che ne includeva altri. L'essenzialità di questi ultimi, sui quali in definitiva si fonda la decisione impugnata, non ha propriamente costituito espressione da parte del giudice di valutazioni, che nel ricorso si rivendicano all'autonomia delle parti, ma ricognizione dall'oggettivo contenuto della trattativa.
Nello stesso ricorso, infatti, trova conferma il punto valorizzato dalla Corte genovese - e sul quale non era stato raggiunto l'accordo - costituito dall'incidenza delle garanzie personali che i fratelli Z. avrebbero dovuto prestare per la società al fine di farle conseguire dei finanziamenti bancari, necessari alla sua liquidità, in relazione, da un lato, con i timori degli stessi Z. di concludere l'accordo nei termini previsti (includenti l'acquisto da parte loro della partecipazione nella Catering Zerbone s.r.l.) per le possibili revocatorie in caso di insolvenza della società, e, dall'altro, con la loro riluttanza a concedere quelle garanzie. La questione rimasta aperta, pertanto, coinvolgeva proprio il patto (concernente i trasferimenti delle partecipazioni sociali) che nel ricorso si pretende concluso.
La circostanza che le condizioni finanziarie della Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a. richiedessero - a causa dell'indebitamento conseguente all'acquisto della partecipazione totalitaria nella Z. Catering s.r.l - un intervento dei soci Z. è, infatti, tesi degli stessi ricorrenti, e il fatto che questo punto condizionasse l'accordo sulla pur progettata cessione della Zerbone Catering s.r.l. agli Z., sotto il profilo del possibile esercizio di azioni revocatorie in loro danno, in caso d'insolvenza della Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a., non è valutazione propria del giudice d'appello, ma accertamento delle questioni che influenzavano concretamente, e dichiaratamente, tutta la trattativa.
Neppure è viziata la motivazione in tema di responsabilità precontrattuale. La Corte di merito non ha commesso l'errore, che nel ricorso le si addebita, di escludere la responsabilità precontrattuale con l'argomento che non potrebbe esservi aspettativa tutelata sin quando il contratto non sia stato ancora concluso; ma ha svolto un'indagine di merito, accertando che nella concreta fattispecie non poteva esservi legittimo affidamento nella positiva conclusione della trattativa, perchè le questioni irrisolte avevano un'incidenza essenziale su quelle per le quali i termini dell'accordo erano stati precisati, e aggiungendo - punto che nel ricorso non è colto, ed è rimasto immune da censure - che il comportamento dei fratelli Z. a questo riguardo era stato trasparente, avendo essi dichiarato i punti incerti, che condizionavano l'esito positivo della trattativa, che proprio per questo non poteva ispirare affidamento.
Con il sesto motivo si censura il rigetto della domanda proposta contro il L.. Si sostiene che le dichiarazioni di quest'ultimo costituivano confessione che le intese sui punti indicati erano state perfezionate attraverso di lui, indipendentemente dalla conclusione dell'accordo su altri punti ciò sarebbe stato sconfessato dai fratelli Z..
Il mezzo, nella parte in cui possa ritenersi non assorbito dal rigetto di quello precedente, è infondato. La corte territoriale, infatti, non ha ravvisato nelle dichiarazioni del L. la pretesa confessione, ed ha in tal modo espresso un giudizio di merito non sindacabile in questa sede. La corte, peraltro, ha anche aggiunto (affermazione non censurata in questa sede) che la mancata conclusione positiva della trattativa non era correlata con il difetto di poteri rappresentativi in capo al L..
Il settimo motivo, vertente sulla prova del danno, è assorbito dal rigetto dei motivi precedenti.
In conclusione il ricorso deve essere respinto. La complessità dei temi posti dalla fattispecie giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 marzo 2006.
Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2006
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 28 marzo 1997 n. 697, il Tribunale di Genova respinse tutte le domande proposte dai signori M.M., F.G., B.d.C.V. (anche come successore a titolo universale di B.d.C.C.), M.L., anche quale procuratore di M.A. e P.L., e D.M.C.D.V.N., quale Procuratore Generale di M.G., nei confronti dei convenuti signori A., Ar., e Z.L., L.A., e C.D.L.M.E., che avevano ad oggetto l'asserita violazione dei patti parasociali stipulati dalle parti in causa.
Secondo l'esposizione degli attori, il 9 marzo 1989 essi, unitamente alla signora C., da un lato, e i convenuti - con esclusione del signor L. dall'altro avevano stipulato un patto, denominato in causa "protocollo", con il quale avevano convenuto: - a) l'acquisto da parte della Gregorio Cortese s.p.a., controllata dagli attori, dell'intera partecipazione nella Zerbone Catering s.r.l., controllata dai convenuti; - b) la ripartizione del capitale della Gregorio Cortese s.p.a. in determinate percentuali in capo a ciascuna delle parti in causa, escluso il L.; - c) la previsione di una clausola statutaria che richiedesse la maggioranza dei 2/3 per le deliberazioni di aumento di capitale; - d) la ripartizione degli amministratori e dei sindaci, in ciascuna delle due società, tra i due gruppi (amministratori e sindaci del gruppo Zerbone sarebbero stati in maggioranza nella controllata Zerbone Catering s.r.l. e in minoranza nella controllante Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a.; - e) la riproduzione dell'accordo in separate scritture per opera di due professionisti ai quali le parti avrebbero conferito mandato congiunto. In conseguenza di tali operazioni il gruppo Zerbone aveva acquisito, per il corrispettivo di circa L. dieci miliardi, il 45% per capitale della Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a.. Il protocollo, redatto in unica copia, era stato fiduciariamente consegnato ad un commercialista di fiducia del gruppo Zerbone. I patti relativi alla rappresentanza negli organi sociali e al quorum deliberativo, tuttavia, non erano mai stati trasfusi in modificazioni statutarie. In violazione dei patti stipulati - i quali, secondo la tesi attrice, prevedevano nel 45% la percentuale massima di capitale della Ristoranti Gregorio Cortese, che poteva essere controllata, in modo diretto o indiretto, dai fratelli Z. - questi ultimi avevano acquisito dalla signora C. un'ulteriore quota del 6% del capitale della Ristoranti Gregorio Cortese, raggiungendo così la quota del 51% del capitale.
Successivamente lo stesso gruppo Zerbone aveva rifiutato le fideiussioni personali necessaria per accodare al credito bancario, al fine di far fronte all'indebitamento della società (causato dalle spese sostenute per l'acquisizione della Zerbone Catering).
Le trattative svoltesi al riguardo tra l'agosto e il dicembre 1991 erano state vanificate dai soci Z., che intendevano invece cedere alla Costa Armatori s.p.a. una rilevante partecipazione nella Zerbone Catering, e, a tal fine, sostituire l'organo amministrativo con altro di loro completa fiducia, che non ostacolasse la progettata cessione al gruppo Costa.
Tra il 21 e il 24 dicembre 1991 era stato messo a punto, con l'intervento del signor L., amministratore della Zerbone Catering s.r.l. e persona di fiducia del gruppo Zerbone, dichiaratosi in possesso di tutti i poteri necessari a trattare per loro conto, un accordo che prevedeva; - a) la cessione della partecipazione Zerbone Catering dalla Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a. al gruppo Zerbone;
- b) la cessione della partecipazione del gruppo Zerbone Catering nella Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a. al gruppo Macciò Fogliani;
- c) un conguaglio a favore di questo di L. 8.250.000.000 (salvo verifica); - d) la cessione dalla Zerbone Catering alla Ristoranti Gregorio Cortese della Ristoranti A. Benigno s.p.a. al costo effettivo da imputarsi fino a concorrenza di L. 3.160.000.000; - e) il pagamento del conguaglio in quattro rate semestrali con un interesse del 5% annuo; f) il trasferimento degli uffici della Gregorio Cortese s.p.a. e il riconoscimento da parte di Zerbone Catering della somma di L. 150 milioni. Restava invece da definire la sorte della partecipazione della C., per la quale il gruppo Macciò Fogliani faceva valere un'opzione, mentre il gruppo Zerbone richiedeva un corrispettivo prossimo a L. 1.000.000.000. In un successivo momento gli Z. si erano dichiarati indisponibili all'esecuzione di questo secondo accordo.
Gli attori avevano chiesto il risarcimento dei danni conseguiti a quei comportamenti, denunciati come contrari a correttezza e buona fede, e in particolare di quelli provocati dalla vendita della rilevante partecipazione nella Zerbone Catering s.r.l al gruppo Costa, che era stata realizzata dopo la notifica dell'atto di citazione, e la dichiarazione d'inefficacia della cessione della partecipazione C. agli Z.. I convenuti avevano contestato che fossero stati perfezionati accordi che prevedessero l'inalienabilità delle quote di partecipazione nella Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a., o il divieto d'incremento della partecipazione nella stessa società, e che nel dicembre del 1991 fossero stati conclusi degli accordi vincolanti.
L'appello, proposto dai soccombenti, fu respinto dalla Corte d'appello di Genova, con la sentenza 21 settembre 2001. La Corte considerò innanzi tutto che, secondo la sentenza di primo grado, la signora C. non aveva partecipato direttamente alle trattative nè alla formazione del protocollo del 9 marzo 1989, che nella circostanza non era rappresentata da altri (in particolare, dal signor M.M.), che non era allegato che la stessa avesse partecipato alle trattative del 1991 sulla sorte della sua partecipazione, escludendosi anzi che, in ordine ad essa fosse stato raggiunto un accordo tra le stesse altre parti. La Corte osservò, quindi, che. in ordine a quegli accertamenti non erano state formulate specifiche censure con l'appello, e ritenne che questo, in quanto diretto contro la stessa C., fosse inammissibile.
Sei resto, la corte condivise il giudizio del Tribunale, circa la mancanza di prova del contenuto del patto del 9 marzo 1989, non acquisito agli atti. La discussione sulla rilevabilità d'ufficio, da parte del primo giudice, della nullità della prova testimoniale assunta era irrilevante, perchè in concreto non era stata assunta alcuna prova testimoniale della conclusione di un accordo parasociale sull'immodificabilità futura del limite massimo di partecipazione sociale dei soci del gruppo Zerbone, e ciò, anche perchè il capitolo di prova specificamente diretto a provare quel patto non era stato ammesso, dandosi per certo - in base alla stessa esposizione degli attori - che il patto non era stato formulato espressamente, e che esso dovesse ricavarsi attraverso un'interpretazione complessiva dell'accordo, che non poteva essere demandata ai testimoni. Neppure v'era stata confessione in giudizio di un simile patto. Poichè poi era certo che il patto in questione non emergeva dal testo del protocollo, redatto in unico esemplare ed affidato alla custodia di un professionista di parte Z., la superfluità del controllo testuale del documento escludeva la ricorrenza della necessita della sua acquisizione attraverso l'ordine di esibizione. In mancanza di prova del patto in questione, rimaneva assorbita l'ulteriore questione - estranea alla ratio decidendi della sentenza di primo grado - della sua eventuale invalidità, per violazione del principio della determinazione delle obbligazioni sotto il profilo temporale.
La Corte ritenne, poi, priva di fondamento la domanda di risarcimento del danno lamentato dagli appellanti in conseguenza del comportamento del signor Ze.Ar., il quale aveva acquistato dalla Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a. la partecipazione in Zerbone Catering s.r.l., per un prezzo corrispondente a circa la metà di quello per il quale l'aveva rivenduta alla Costa Crociere s.p.a.. Un tale danno, secondo la corte, si era prodotto nella sfera della società che aveva alienato la partecipazione, e non poteva essere fatto valere come danno proprio dei soci della medesima. A parte ciò, nessun altro danno - riconducibile sotto il profilo causale all'accordo del 9 marzo 1989 - era stato allegato dagli appellanti.
Ciò doveva ritenersi, in particolare, per la contestata legittimità degli aumenti di capitale in Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a., oggetto peraltro di un'azione di mero accertamento per la quale non era stato enunciato un interesse giuridico apprezzabile; e per l'addebito, formulato in termini vaghi, di aver reso precaria la situazione finanziaria della s.p.a. Ristoranti Gregorio Cortese.
Passando ad esaminare le domande collegate alle trattative del dicembre 1991, la corte condivise il giudizi del tribunale, circa il mancato raggiungimento della prova della conclusione del contratto sui punti concordati, con esclusione di altri punti controversi, e ritenne che l'essenzialità delle pattuizioni non concluse, rispetto alle altre facenti parte del complessivo contesto negoziale, avesse quale conseguenza che il mancato accordo su di esse si ripercuotesse sulle altre. Neppure era ravvisabile una responsabilità precontrattuale, sia perchè l'essenzialità e la gravità delle questioni irrisolte inducevano ad attribuire a normale e giustificata prudenza, invece che a pretestuosità, la variabilità delle determinazioni dei contraenti circa l'insieme degli accordi perseguiti, in relazione alla possibilità di garanzie ulteriori dipendenti dalle pattuizioni non concluse; e sia perchè l'aperta discussione su quei punti aveva salvaguardato il dovere di buona fede sotto il profilo specifico dell'informazione della controparte circa le situazioni e le ragioni che potevano ostacolare la conclusione del negozio.
Circa le domande proposte specificamente contro il signor L., la corte ritenne che la denunciata mancanza del potere rappresentativo del gruppo Zerbone, speso nelle trattative, non fosse provata, e che il mancato perfezionamento dell'accordo parziale raggiunto con lui, da parte del gruppo Zerbone, non fosse in alcun modo collegato al prospettato difetto di potere rappresentativo.
Per la cassazione di questa sentenza ricorrono per parti soccombenti, con atto notificato il 5 novembre 2002, per sette motivi.
Resistono la signora C., con controricorso notificato il 14 dicembre 2002, e, separatamente, gli altri intimati, con controricorso notificato 14 dicembre 2002.
Sia i ricorrenti e sia i resistenti hanno depositato memoria illustrativa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si censura la dichiarazione, nell'impugnata sentenza, d'inammissibilità dell'appello proposto contro la signora C., per difetto di censure specifiche agli argomenti con i quali il tribunale ne aveva escluso la legittimazione passiva. Si denunzia a questo riguardo la violazione o errata applicazione di norme processuali, e in particolare dell'art. 342 c.p.c. in tema di specificità dei motivi d'appello. I ricorrenti sostengono che il tribunale, come contraddittoriamente si desumerebbe anche dall'impugnata sentenza, non aveva dichiarato il difetto di legittimazione passiva - e pertanto nessuna censura contro una tale pronuncia poteva essere proposta - ma si era limitato ad escludere che vi fosse prova della partecipazione della signora C. agli accordi del 1989; e che questa affermazione era stata specificamente censurata in appello con il richiamo ad affermazioni confessorie. La censura sarebbe contenuta nelle prime sei pagine dell'appello, dove si dava compiutamente conto delle circostanze dedotte in narrativa, in particolare laddove si affermava che la C. era stata rappresentata nelle trattative da M.M.; e nelle pagine da 21 a 31 dell'atto medesimo (oltre che nella comparsa conclusionale in appello) in cui si dava specificamente atto degli elementi di prova da cui si desumeva che la C. era effettivamente rappresentata da M.M.. infine, la tesi esposta in conclusionale d'appello, dell'affidamento legittimo nel potere rappresentativo della signora C. in capo al socio M.M., non ampliava inammissibilmente il thema decidendum, come ritenuto dalla Corte territoriale, perchè si basava su elementi già acquisiti e su domande risarcitorie già proposte, e costituiva al più una qualificazione del rapporto diversa, da quella anteriormente indicata, ma consentita.
Il motivo, per la parte in cui può essere esaminato nel presente giudizio di legittimità, si traduce nell'affermazione che la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciare sull'appello proposto contro la signora C., dichiarandolo inammissibile sulla base di un'errata applicazione del principio di specificità dei motivi d'appello. Esso è infondato.
La Corte genovese ha deciso sul punto in esame basandosi sul rilievo che l'accertamento di fatto del giudice di primo grado, circa l'estraneità della signora C. ai patti parasociali del 9 marzo 1989, non era stato specificamente censurato. Il giudizio, ispirato ai comuni criteri circa il requisito di specificità dei motivi d'appello, non viola la disposizione richiamata, e costituisce esplicazione del compito d'interpretazione della domanda di gravame, che la legge processuale riserva al giudice del merito (Cass. 26 aprile 2001 n. 6066, e 2 marzo 2001 n. 3016).
Si può aggiungere che una diversa conclusione non sarebbe giustificata neppure in base all'altro indirizzo giurisprudenziale (al quale i ricorrenti fanno ripetuto riferimento), per il quale la riserva al giudice di merito dell'interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti non trova applicazione, quando si assume che tale interpretazione abbia determinato vizi riconducibili nell'ambito dell'art. 112 c.p.c., perchè in tali oasi, deducendosi "errores in procedendo", la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere dovere di procedere direttamente all'esame ed all'interpretazione degli atti processuali (in questo senso, da ultimo, Cass. 22 gennaio 2004 n. 1079). La lettura dell'appello, infatti, con il riscontro dei passi richiamati (quantunque in modo generico) dai ricorrenti, non conferma l'assunto che nell'atto di appello sarebbero state formulate, con riferimento al giudizio di estraneità della signora C. al cosiddetto "protocollo", censure specifiche. Tali, infatti, non sono quelle che si limitano all'individuazione del punto della sentenza di primo grado che si intende impugnare, richiedendosi inoltre che esse svolgano gli argomenti per i quali si sostiene l'erroneità della decisione. Censure siffatte non si rinvengono certamente nelle prime sei pagine dell'appello, contenenti la mera esposizione dei fatti allegati dalla parte in primo grado: non si può, infatti, assegnare il ruolo di mezzo di gravame all'affermazione, riferita in quella sede tra le allegazioni degli attori nell'introduzione del giudizio, che la signora C. sarebbe stata rappresentata dal socio M.M.. Non v'è censura, ma solo esposizione del giudizio del tribunale, neppure nello svolgimento dei motivi dell'appello, laddove, richiamando la sentenza gravata, si riferisce quanto accertato dal primo giudice, che, cioè, i fratelli Z. avevano acquistato la quota della socia C., considerata dagli attori - bensì - parte integrante del loro schieramento, ma che non aveva partecipato direttamente alla trattativa e alla formazione dell'accordo. Ancor meno può ravvisarsi una censura nella trascrizione del capitolo di prova formulato sulla pattuita ripartizione del capitale (in cui alla socia C. era stata riservata una quota del 15%), o nell'affermazione (funzionale all'interpretazione complessiva del "protocollo") che la supposta libertà del fratelli Z. di acquistare altre quote, come poi fecero con quella della signora C., avrebbe vanificato gli effetti dell'accordo.
Da ultimo - e con riferimento alla tesi, esposta per la prima volta in comparsa conclusionale di appello, dell'affidamento incolpevole degli odierni ricorrenti nella ritenuta partecipazione della socia C. al Protocollo - si deve condividere il giudizio della corte territoriale, che in tale prospettazione era contenuta un'inammissibile dilatazione del thema decidendum, comportando essa l'estensione del dibattito processuale dal tema della partecipazione della socia agli accordi a quello, basato su circostanze di fatto diverse, del comportamento colposo della stessa parte falsamente rappresentata (la necessità del quale è stata costantemente affermata da questa Corte: v., tra le più recenti, 12 gennaio 2006 n. 408; 13 agosto 2004 n. 15743; 23 luglio 2004 n. 13829; 10 gennaio 2003 n. 204; 29 aprile 1999 n. 4299; 22 aprile 1999 n. 3988), che avrebbe giustificato l'affidamento degli altri soci. Il mezzo d'impugnazione è pertanto da respingere.
Con il secondo motivo di ricorso si censura la ritenuta inammissibilità della prova testimoniale sul contenuto dell'accordo concluso tra le parti nel 1989, l'omessa considerazione di altre prove acquisite sul medesimo punto, e la motivazione con la quale era stata negata l'esibizione dei documenti, contenenti il patto medesimo, in possesso di terzi.
Si sostiene che il divieto di utilizzare la prova testimoniale già assunta non poteva basarsi sull'art. 1352 c.c., perchè non era mai stato prospettato un accordo in merito all'adozione della forma scritta del cosiddetto protocollo, oggetto della prova; che in ogni caso altre prove erano state acquisite al processo, ed indebitamente ignorate dal giudice di merito. Infine, la prova orale non poteva trovare ostacolo neppure nell'art. 2725 c.c. in relazione all'art. 2724 c.c., n. 3, salvo ad ammettere quell'ordine di esibizione del documento, posseduto dal terzo, che la Corte territoriale aveva contraddittoriamente negato. Nell'ultima parte del mezzo in esame, infatti, la censura del rigetto della domanda di esibizione del documento contenente il "protocollo" si basa sulla contraddizione tra il precedente assunto, della mancata prova del patto che limitava la partecipazione dei fratelli Z. al capitale della Ristoranti Gregorio Cortese, e l'affermazione che il documento contenente quel patto non sarebbe rilevante ai fini della decisione.
Le censure di violazione o di falsa applicazione di legge, nonchè di vizi di motivazione "su un punto decisivo", sopra sintetizzate, sono infondate. Nell'impugnata sentenza, dopo lo svolgimento delle considerazioni, censurate col mezzo in esame, circa la rilevabilità d'ufficio della violazione del divieto della prova orale, il punto ritenuto decisivo è chiaramente enunciato laddove - in dichiarato contrasto sia con la sentenza di primo grado e sia con l'impostazione degli appellanti - si afferma che nella fattispecie non si poneva un problema di verifica postuma dell'ammissibilità di una prova testimoniale, perchè non emergeva dalla difesa degli appellanti, nè dall'esame del materiale istruttorio, una prova di fonte testimoniale dell'avvenuta conclusione tra le parti di un accordo parasociale avente quale contenuto - integrativo di quello di cui al "protocollo" - l'immodificabilità futura del limite massimo della partecipazione sociale del gruppo Zerbone; e che, anzi, lo stesso tribunale, nell'ammettere la prova testimoniale, ne aveva escluso - con ordinanza non impugnata - proprio il capitolo sulla circostanza che quegli accordi prevedessero espressamente che la percentuale massima di partecipazione della gruppo Zerbone al capitale della Ristoranti Gregorio Cortese non potesse superare il 45% dell'intero, siccome diretto non a descrivere ma ad interpretare i patti.
Discende da ciò, che tutte le censure, vertenti sugli argomenti con i quali era stata motivata (dal tribunale) l'inammissibilità della prova testimoniale già assunta in ritenuta violazione delle norme di legge richiamate, sono dirette contro un punto non decisivo della sentenza d'appello, nella quale la decisione poggia in definitiva sull'argomento che la prova invocata dagli appellanti non poteva in concreto giovare al loro assunto, laddove questo vertesse sull'esistenza di un patto esplicito e specifico d'immodificabilità della distribuzione del capitale sociale (come doveva supporsi, in forze del principio che, per la sua ammissibilità, la prova deve vertere su una quaestio facti e non direttamente sull'interpretazione di un negozio).
Circa le altre prove acquisite agli atti, l'odierno motivo di ricorso sollecita - nella forma apparente di denuncia di un error in procedendo, al quale si appoggia la richiesta di un esame diretto degli atti da parte della Corte - una valutazione delle prove raccolte in causa, peraltro già esaminate dalla corte territoriale (la quale ha espressamente escluso l'esistenza di una confessione), inammissibile in questa sede di legittimità (le violazioni degli artt. 115 e 116 c.p.c., richiamate in rubrica, sono apprezzabili nei limiti del vizio di motivazione descritto nell'art. 360 c.p.c, comma 1, n. 5., e devono pertanto emergere direttamente dalla lettura della sentenza, e non già dal riesame degli atti: cfr. Cass. 12 febbraio 2004 n. 2707).
Infine, e con riguardo al tema dell'ordine di esibizione del documento, negato dalla corte genovese, il punto deve essere considerato dall'angolatura offerta dagli stessi ricorrenti, i quali chiariscono di aver sostenuto in causa che il patto d'immodificabilità del tetto del 45%, posto alla partecipazione dei soci Z. nella Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a., doveva desumersi da una serie di clausole (e, innanzi tutto, dalla ripartizione degli amministratori e sindaci nella medesima società, deducendosi che la previsione della riserva di in gruppo di consiglieri di amministrazione alla minoranza non avrebbe avuto senso, se la minoranza poteva acquisire la maggioranza azionaria, e con ciò il controllo del consiglio di amministrazione), tutte provate in punto di fatto, e delle quali neppure il giudice di merito ha negato l'esistenza.
Ciò premesso, l'affermazione dell'impugnata sentenza, che il patto d'immodificabilità delle partecipazioni al capitale non emergesse dal testo letterale del protocollo, mentre non contraddice la precedente affermazione d'inesistenza di prove orali circa l'accordo esplicito sul patto medesimo, è poi sostanzialmente confermata nel ricorso, dove si espone nitidamente l'argomento - logico, e non letterale - sul quale era fondato l'assunto interpretativo degli appellanti. Da ciò lo stesso giudice ha tratto correttamente la conclusione della superfluità dell'esibizione del documento. Pur riconoscendo l'astratta legittimità della richiesta di un'interpretazione complessiva delle clausole contrattuali, egli ha infatti negato la necessità dell'esibizione, perchè ha dato per già provato il contenuto letterale delle clausole alle quali i ricorrenti attribuiscono il valore decisivo nella ricostruzione della volontà comune.
Ebbene, neppure gli argomenti logici, portati a sostegno dell'interpretazione del protocollo nel senso dell'esistenza di un patto implicito d'immodificabilità, sono stati ignorati dalla Corte territoriale, che ha ritenuto l'argomento interpretativo proposto non condivisibile nel caso concreto, perchè i patti parasociali provati - tra i quali era compreso anche quello sulla composizione degli organi amministrativi - potevano esplicare apprezzabili effetti anche senza il patto d'immodificabilità del tetto di partecipazione dei fratelli Z. al capitale.
In tal modo, la corte territoriale ha espresso un giudizio di merito, come tale non direttamente sindacabile da questa Corte. Le altre considerazioni, oggetto di censura, e vertenti sull'impossibilità di un'interpretazione complessiva del documento non disponibile, del quale al tempo stesso si negava la necessità dell'esibizione, appaiono superflue nell'economia della decisione, sicchè l'illogicità censurata non verterebbe in ogni caso sul punto decisivo, e non integrerebbe 11 vizio dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il terzo motivo di ricorso verte sulla validità del divieto di modifiche della composizione del capitale a tempo indeterminato, stante la possibilità di recesso.
Il mezzo è assorbito dal rigetto di quello precedente, vertente appunto sulla prova della esistenza di un tale patto.
Il quarto motivo verte sul rigetto della domanda di risarcimento danno subito in conseguenza della vendita della partecipazione in Zerbone Catering ad Ze.Ar., e la successiva rivendita di essa al gruppo Costa ad un prezzo doppio. La sentenza impugnata ha negato la risarcibilità del danno in questione, perchè sopportato dalla Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a. e non dagli appellanti. Si censura questa affermazione, sostenendo che la manovra denunciata era diretta a far conseguire i vantaggi dell'operazione ai soli soci componenti del gruppo Zerbone, con esclusione dei soci ricorrenti, che ne avevano risentito un danno costituito dalla privazione della quota di utile alla quale avevano diritto. La giurisprudenza in tema di danno diretto subito dal socio, citata nella sentenza impugnata, che si riferisce all'azione di responsabilità proposta dal socio nei confronti degli amministratori, sarebbe inapplicabile alla fattispecie, in cui si tratta di un'azione proposta da alcuni soci direttamente nei confronti di altri, per la violazione del patto sociale.
Con riguardo a questa violazione si sostiene anche che la nozione di utile deve essere intesa in senso molto lato, essendo ben possibile che i soci ricavino il vantaggio derivante dall'attività sociale "direttamente", e non per il tramite della, società. La Corte territoriale, infine, sarebbe incorsa nel vizio di omessa pronuncia sul danni, conseguenti ad altri comportamenti, indicati nelle conclusioni nn. 5, 6 e 7 dell'atto di appello.
La censura è infondata. Questa corte ha bensì riconosciuto che il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375) si applica anche ai rapporti tra i soci di una società di capitale, dopo la sua costituzione e per tutto il corso del suo svolgimento (Cass. 26 ottobre 1995 n, 11151); e da tale principio non intende discostarsi nel caso concreto. Si deve anzi riconoscere che norme isolate dell'ordinamento prevedono ora casi particolari nei quali il socio che controlla la società risponde direttamente nei confronti degli altri soci per il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale (art. 2497 c.c.; nelle società a responsabilità limitata vi sono casi nei quali i soci rispondono in solido con gli amministratori degli atti dannosi per la società: v.
art. 2476 c.c., comma 7). Ha queste considerazioni non influenzano la decisione nel caso presente.
In primo luogo, infatti, nell'impugnata sentenza la responsabilità degli appellati non è stata esclusa movendo da premesse diverse da quelle sopra ricordate, che dispenserebbero i soci dall'osservanza del principio di buona fede, giacchè la corte territoriale si è astenuta da ogni valutazione sull'elemento soggettivo dell'illecito denunciato dagli odierni ricorrenti. In secondo luogo, la domanda è stata respinta solo perchè il danno allegato non era un danno diretto al patrimonio degli appellanti. E questo giudizio è immune da censure.
Secondo la prospettazione dei ricorrenti, il trasferimento a terzi della partecipazione sociale avrebbe comportato un vantaggio ai soli componenti del gruppo Zerbone, che nel trasferimento intermedio avrebbero lucrato la differenza rispetto al prezzo da loro pagato alla società. Tuttavia, poichè alienante era appunto la Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a., il danno sarebbe stato esclusivamente di quest'ultima, e, se anche dei soci del gruppo Fogliani - Macciò, solo per il medio del danno al patrimonio della società alienante, partecipata sia dai ricorrenti e sia dagli altri soci. Ciò posto, non è pertinente il richiamo dei ricorrenti al precedente di Cass. 6 agosto 1979 n. 4556 (peraltro isolato: contra, v. la recente 12 aprile 2005 n. 7536, in motivazione), secondo cui la nozione di lucro soggettivo, nel contratto di società, non richiederebbe necessariamente la sua preventiva acquisizione al patrimonio della società, per la successiva distribuzione tra i soci. Al contrario dell'utilità diretta che i soci possono trarre dalla loro partecipazione alla società, per le prestazioni che questa offra loro (alle quali si fa riferimento in quella sentenza), il danno allegato in questo caso sarebbe stato, infatti, subito dai ricorrenti indirettamente, per il fatto di partecipare alla società danneggiata.
D'altra parte, neppure risulta - dalla sentenza impugnata e dal ricorso oggi all'esame della corte - che un problema di ammissibilità del risarcimento di un danno indiretto fosse stato sottoposto in termini puntuali al giudice di merito, perchè il danno allegato dai ricorrenti non è individuato in relazione al valore della loro partecipazione, e quindi mediato dalle risultanze di bilancio della società partecipata, ma direttamente in relazione al minor prezzo conseguito dalla società per la vendita della partecipazione; e, dovendosi escludere la legittimazione dei soci a far valere direttamente i danni subiti dalla società, si comprende il senso del richiamo, nell'impugnata sentenza, alla giurisprudenza elaborata in tema di azione di responsabilità del socio (art. 2395 c.c.).
Quanto alle altre domande risarcitorie, quelle richiamate nel ricorso hanno ad oggetto l'accertamento di un danno corrispondente a quello fin qui esaminato (punto 5 dell'atto di appello), o di altri comportamenti (aver reso precaria la situazione finanziaria della società opponendosi all'acquisizione di finanziamenti a condizioni vantaggiose) posti espressamente in diretta relazione finalistica con quello (punto 6) e dunque solo attraverso di esso produttivo di danno, e la consequenziale pronuncia di condanna (punto 7) che quantifica il danno in relazione alla differenza tra la il prezzo di alienazione della partecipazione ai soci Z. e quello del successivo trasferimento. La pronuncia di rigetto censurata con il mezzo in esame verte dunque proprio sulle domande per le quali, senza fondamento, si denuncia l'omessa pronuncia.
Con il quinto motivo di ricorso, denunciandosi la violazione di norme in materia di prove e di formazione del contratto, e vizi di motivazione connessi, si censurano le statuizioni con le quali la Corte territoriale ha escluso sia la formazione di un accordo parziale vincolante nelle trattative del dicembre 1991, e sia la responsabilità precontrattuale per il mancato perfezionamento di quelle trattative su altri punti. Circa la conclusione di un accordo, sarebbe stata ignorata la confessione di Z.L., confermata dalle dichiarazioni del L., che aveva indicato i punti oggetto dell'accordo concluso: non poteva pertanto il giudice entrare nella valutazione della essenzialità di altri punti.
Quest'ultima doglianza, circa l'emessa valutazione del carattere confessorio delle dichiarazioni raccolte in causa - peraltro riportate nel ricorso in modo che non consente di ravvisarvi una contraddizione con il giudizio, espresso nell'impugnata sentenza, che l'accordo sul punto determinante della prestazione delle garanzie fosse stato procrastinato - è questione di puro apprezzamento delle prove, e come tale riservata al giudice di merito.
Anche le altre doglianze, che vertono sul disconosciuto carattere vincolante dei patti conclusi dalle parti, sulla base di un'inammissibile apprezzamento giudiziale circa il loro carattere più o meno essenziale, sono infondate. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte, ai fini della configuratilità di un definitivo vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l'intesa su tutti gli elementi dell'accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l'intesa solamente su quelli essenziali ed ancorchè riportati in apposito documento, risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori (con la precisazione che, anche in presenza, del completo ordinamento di un determinato assetto negoziale, può risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell'attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto, il cui accertamento, nel rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e segg. cod. civ., è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in Cassazione ove sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici:
v. Cass. 18 gennaio 2005 n. 910; conf. 7 aprile 2004 n. 871).
Nella specie, la corte territoriale ha accertato che i punti sui quali si era formato il consenso facevano parte di un'unica trattativa, che ne includeva altri. L'essenzialità di questi ultimi, sui quali in definitiva si fonda la decisione impugnata, non ha propriamente costituito espressione da parte del giudice di valutazioni, che nel ricorso si rivendicano all'autonomia delle parti, ma ricognizione dall'oggettivo contenuto della trattativa.
Nello stesso ricorso, infatti, trova conferma il punto valorizzato dalla Corte genovese - e sul quale non era stato raggiunto l'accordo - costituito dall'incidenza delle garanzie personali che i fratelli Z. avrebbero dovuto prestare per la società al fine di farle conseguire dei finanziamenti bancari, necessari alla sua liquidità, in relazione, da un lato, con i timori degli stessi Z. di concludere l'accordo nei termini previsti (includenti l'acquisto da parte loro della partecipazione nella Catering Zerbone s.r.l.) per le possibili revocatorie in caso di insolvenza della società, e, dall'altro, con la loro riluttanza a concedere quelle garanzie. La questione rimasta aperta, pertanto, coinvolgeva proprio il patto (concernente i trasferimenti delle partecipazioni sociali) che nel ricorso si pretende concluso.
La circostanza che le condizioni finanziarie della Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a. richiedessero - a causa dell'indebitamento conseguente all'acquisto della partecipazione totalitaria nella Z. Catering s.r.l - un intervento dei soci Z. è, infatti, tesi degli stessi ricorrenti, e il fatto che questo punto condizionasse l'accordo sulla pur progettata cessione della Zerbone Catering s.r.l. agli Z., sotto il profilo del possibile esercizio di azioni revocatorie in loro danno, in caso d'insolvenza della Ristoranti Gregorio Cortese s.p.a., non è valutazione propria del giudice d'appello, ma accertamento delle questioni che influenzavano concretamente, e dichiaratamente, tutta la trattativa.
Neppure è viziata la motivazione in tema di responsabilità precontrattuale. La Corte di merito non ha commesso l'errore, che nel ricorso le si addebita, di escludere la responsabilità precontrattuale con l'argomento che non potrebbe esservi aspettativa tutelata sin quando il contratto non sia stato ancora concluso; ma ha svolto un'indagine di merito, accertando che nella concreta fattispecie non poteva esservi legittimo affidamento nella positiva conclusione della trattativa, perchè le questioni irrisolte avevano un'incidenza essenziale su quelle per le quali i termini dell'accordo erano stati precisati, e aggiungendo - punto che nel ricorso non è colto, ed è rimasto immune da censure - che il comportamento dei fratelli Z. a questo riguardo era stato trasparente, avendo essi dichiarato i punti incerti, che condizionavano l'esito positivo della trattativa, che proprio per questo non poteva ispirare affidamento.
Con il sesto motivo si censura il rigetto della domanda proposta contro il L.. Si sostiene che le dichiarazioni di quest'ultimo costituivano confessione che le intese sui punti indicati erano state perfezionate attraverso di lui, indipendentemente dalla conclusione dell'accordo su altri punti ciò sarebbe stato sconfessato dai fratelli Z..
Il mezzo, nella parte in cui possa ritenersi non assorbito dal rigetto di quello precedente, è infondato. La corte territoriale, infatti, non ha ravvisato nelle dichiarazioni del L. la pretesa confessione, ed ha in tal modo espresso un giudizio di merito non sindacabile in questa sede. La corte, peraltro, ha anche aggiunto (affermazione non censurata in questa sede) che la mancata conclusione positiva della trattativa non era correlata con il difetto di poteri rappresentativi in capo al L..
Il settimo motivo, vertente sulla prova del danno, è assorbito dal rigetto dei motivi precedenti.
In conclusione il ricorso deve essere respinto. La complessità dei temi posti dalla fattispecie giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 marzo 2006.
Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2006