clausole di contingentamento dei contratti a termine

Le clausole di contingentamento dei contratti a termine, l'onere della prova del rispetto dei limiti percentuali e le conseguenze in caso di violazione delle clausole di contingentamento

 

 

Le clausole di contingentamento dei contratti a termine sono le clausole introdotte dai CCNL stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi con le quali viene fissato un determinato limite percentuale di ricorso ai contratti a tempo determinato sul totale dei rapporti di lavoro a tempo pieno.

Una prima questione inerente le clausole di contingentamento è quella riguardante l'onere di allegazione e prova.

Nella giurisprudenza di legittimità, prevale la tesi che pone a carico del datore di lavoro l'onere di provare l'avvenuto rispetto delle calusole di contingentamento.

L’art. 10, comma 7, d.lgs. n. 368/2001 affida ai Ccnl stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi «la individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell’istituto del contratto a tempo determinato»

Occorre, al riguardo, chiedersi se dal menzionato art. 10 derivi l’impossibilità di stipulare contratti a termine in mancanza di determinazione di limiti quantitativi da parte dei soggetti collettivi selezionati. In vigenza dell’art. 23, l. n. 56/1987, dottrina e giurisprudenza prevalenti individuavano nelle clausole di contingentamento un presupposto necessario per l’apponibilità del termine al contratto. Ciò in quanto la predeterminazione della percentuale dei contratti a termine funzionava come contrappeso all’ampia facoltà, riconosciuta alla autonomia collettiva, di ampliamento delle fattispecie di (legittima) apposizione del termine al contratto di lavoro. Sicché la fissazione dei limiti percentuali era configurata come un onere a carico delle parti sociali per poter esercitare tale facoltà (Cass., sez. un., 2 marzo 2006, n. 4588.

All'indomani dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 2001, non sembra configurabile una condizione di procedibilità ai fini dell’assunzione a termine, in un contesto di sostanziale liberalizzazione delle ipotesi di apposizione del termine, con la conseguenza che la fissazione dei limiti percentuali alle assunzioni a tempo determinato dovrebbe ritenersi una mera facoltà resa disponibile alla contrattazione collettiva. 

Un forte contrasto sussiste in giurisprudenza in merito alle conseguenze sanzionatorie nel caso di violazione delle stesse. In passato, nonostante il silenzio dell’art. 23, l. n. 56/1987, prevaleva la tesi dell’invalidità dei contratti stipulati in eccesso (rispetto ai limiti percentuali fissati dal contratto collettivo), con conseguente conversione in altrettanti contratti a tempo indeterminato. Attualmente si registra una pluralità di soluzioni interpretative: vi è chi propende per la nullità dell’intero contratto, chi opta per la (mera) antisindacalità della condotta antisindacale, chi ipotizza sanzioni di carattere pecuniario-amministrativo nei confronti dei datori di lavoro inadempienti.

Art 10, comma 7 del d.lgs. n. 368/2001


7. La individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell'istituto del contratto a tempo determinato stipulato ai sensi dell'articolo 1, commi 1 e 1-bis, è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Sono in ogni caso esenti da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato conclusi (8):

a) nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici;

b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell'elenco allegato al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525, e successive modificazioni;

c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi (9);

d) con lavoratori di età superiore a 55 anni (10);

 

Cassazione civile  sez. lav. 19 gennaio 2010  n. 839

 

La violazione delle clausole di contingentamento , stabilite dalla contrattazione collettiva ai sensi dell'art. 23, comma 1, l. n. 56/1987, determina la conversione del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato. In tal caso, incombe sul datore di lavoro llonere di provare il rispetto della percentuale di contingentamento . LLinerzia protrattasi per quasi tre anni dalla scadenza del termine illegittimamente apposto a un contratto di lavoro subordinato non è di per sé sola significativa della volontà del lavoratore di acconsentire alla risoluzione bilaterale tacita del contratto.



Anche i primi due motivi, da trattare congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

Circostanza incontroversa in atti, secondo quanto evidenziato nella sentenza impugnata ed espressamente concordando in proposito la stessa societa' ricorrente nell'esposizione dei fatti di causa, e' che il termine apposto al contratto di lavoro in questione, stipulato per il periodo 20 luglio - 30 settembre 1999, fu giustificato con la necessita' di espletamento del servizio di recapito in concomitanza di assenze per ferie, giusta la specifica ipotesi di assunzione a tempo determinato prevista dall'art. 8 ccnl 26 novembre 1994, ai sensi della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 (recante norme sull'organizzazione del mercato del lavoro).

Tale disposizione di legge al comma 1 dispone testualmente:

"L'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro, oltre che nelle ipotesi di cui alla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modificazioni ed integrazioni, nonche' al D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis convertito, con modificazioni, dalla L. 25 marzo 1983, n. 79, e' consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. I contratti collettivi stabiliscono il numero in percentuale dei lavoratori che possono essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato".

E si e' piu' volte ribadito, in linea con quanto sostenuto da autorevole dottrina, che l'unica limitazione imposta alla contrattazione collettiva dalla L. n. 56 del 1987 era quella di stabilire il numero percentuale dei lavoratori a termine rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato; limitazione che funge da contrappeso agli ampi poteri alla stessa contrattazione assegnati, perche' a fronte del sistema di tassativita' previsto dalla L. n. 230 del 1962, la successiva normativa del 1987 ha mostrato di volere procedere ad una significativa inversione di tendenza per avere, appunto, assegnato all'autonomia sindacale il compito di individuare, come detto, ipotesi di contratto a termine ulteriori rispetto a quelle previste per legge (cfr. in motivazione Cass. 7 dicembre 2005 n. 26989).

Relativamente alla prova dell'osservanza della percentuale dei lavoratori da assumere a termine rispetto ai dipendenti impiegati dall'azienda con contratto di lavoro a tempo indeterminato, il relativo onere e' a carico del datore di lavoro, in base alla regola esplicitata dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 3 secondo cui incombe al datore di lavoro dimostrare l'obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l'apposizione di un termine al contratto di lavoro.

Non e' percio' condivisibile l'affermazione contenuta nella pronuncia di questa Corte n. 17674 dell'11 dicembre 2002, secondo cui incombe al lavoratore, ai sensi del disposto dell'art. 2697 c.c., provare le ragioni della dedotta illegittimita' del contratto di lavoro, per violazione del requisito numerico. Del resto la decisione ora richiamata non affronta ex professo la questione dell'interpretazione della L. n. 230 del 1962, ex art. 3 in quanto sostiene che l'assunto del lavoratore circa il carico dell'onere della prova in ordine all'osservanza del requisito numerico, da addossare al datore di lavoro, non poteva trovare ingresso in quella sede perche' a fronte di una affermazione della sentenza di primo grado, secondo cui il lavoratore non aveva ritualmente eccepito il superamento del limite numerico di assunzione degli ufficiali di riscossione con contratto a termine, lo stesso non aveva sul punto proposto uno specifico motivo di gravame, e che in ogni caso, avendo il lavoratore posto a sostegno delle sue richieste l'illegittimita' del contratto a termine stipulato con la societa' datrice di lavoro per violazione del requisito numerico, incombeva al lavoratore stesso, in applicazione del generale principio sancito dall'art. 2697 c.c., provare le ragioni della dedotta illegittimita'.

E tale precedente giurisprudenziale e' d'altra parte superato dalla successiva giurisprudenza di questa Corte, la quale di recente, nel ribadire come nel regime di cui alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, la facolta' delle organizzazioni sindacali di individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro e' subordinata dall'art. 23 alla determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti, ha sottolineato che non e' sufficiente l'indicazione del numero massimo di contratti a termine, occorrendo altresi', a garanzia di trasparenza ed a pena di invalidita' dell'apposizione del termine nei contratti stipulati in base all'ipotesi individuata ex art. 23 citato, l'indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, si' da potersi verificare il rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine (Cass. 12 marzo 2009 n. 6010).

 

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