Il principio di materialità nel diritto penale

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Il principio di materialità, nell'ambito del diritto penale, impone che il fatto di reato si estrinsechi nel mondo materiale, non essendo sufficiente, al riguardo, che esso consista in un mero stato soggettivo di volizione.
 
Il principio di materialità trova il suo fondamento costituzionale nell'art. 25 della Carta nella quale l'uso della locuzione "fatto commesso" lascia chiaramente intendere l'esclusione dall'area del penalmente rilevante di quei fatti che, esaurendosi nella sfera psichica dell'autore, non trovano una concreta estrinsecazione nella realtà esterna.

Il fatto di reato, in armonia con l'enunciato principio di materialità, deve necessariamente consistere di un elemento oggettivo (materiale) distinto dall'elemento psicologico. Quanto all'elemento oggettivo, esso coinvolge necessariamente la condotta, nonchè, ove richiesto, l'evento ed il nesso di causalità tra condotta ed evento.
 
Sotto il profilo definitorio la condotta penalmente rilevante è quella conforme al fatto tipico descritto dalla norma penale.
 
In dottrina si è tentato di individuare una nozione di condotta penalmente rilevante non formale e pregiuridica allo scopo di isolare, a priori, le condotte penalmente irrilevanti.
 
Per una prima tesi, dunque, la condotta sarebbe un movimento corporeo cagionato dalla volontà; tale tesi, se si rivela idonea a ricomprendere nel suo ambito d'applicazione, i reati dolosi e colposi d'azione, è, tuttavia, carente con riferimento ai reati omissivi laddove può anche mancare (ed anzi di regola manca) un concreto movimento corporeo.
 
Secondo una seconda tesi, la condotta consisterebbe in un'attività finalisticamente diretta alla realizzazione di un evento tipico; tale tesi, se risulta idonea a ricomprendere nel suo ambito i reati dolosi di azione, secondo autorevole dottrina, non sarebbe idonea a giustificare la punibilità dei reati colposi e dei reati omissivi laddove difetterebbe un'attività finalisticamente diretta alla realizzazione dell'evento tipico. I fautori della concezione finalistica elaborano, con riferimento ai reati colposi ed ai reati omissivi, la figura della condotta potenzialmente finalistica e, cioè, della condotta possibile conforme alle regole della diligenza (nei reati colposi) e di quella capace di evitare l'evento (nei reati omissivi).
 
Con riferimento al principio di materialità ed alla condotta, una prima distinzione generale è quella tra i reati di azione ed i reati omissivi; i primi consistono in un movimento corporeo (nozione che deve intendersi in senso lato ed atta a ricomprendere, nel suo seno, anche la parola) atto ad offendere l'interesse protetto dalla norma penale, i secondi consistono, invece, nell'omissione del comportamento doveroso possibile imposto dalla norma penale al ricorrere di determinati presupposti.
 
Con riferimento ai reati d'azione, un problema rilevante è quello di stabilire, ove più movimenti corporei della medesima persona offendano il medesimo interesse protetto dalla norma penale, se ci si trovi di fronte ad un unico fatto penalmente rilevante o di fronte ad una pluralità di reati. In tal caso, l'elemento determinante a fini discretivi è quello di valutare la sussistenza o meno della contestualità tra le varie azioni; ove vi sia contestualità, infatti, l'azione penalmente rilevante sarà unica, ove, invece, vi sia interruzione tra i vari movimenti corporei offensivi dell'interesse protetto, ci si troverà di fronte ad una pluralità di reati.

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