Nota alla sentenza della Corte Costituzionale n. 121 del 2006 dell'Avv. Antonio Fraioli (dottorando di ricerca nell'Università di Roma "Tor Vergata") in tema d'indennità di disoccupazione. L'articolo, nell'approfondire la questione relativa alla spettanza dell'indennità di disoccupazione per i "partimers" verticali (oggetto della cognizione della Consulta), esamina anche i presupposti e la logica generale dell'indennità di disoccupazione. Anche alla luce dell'evoluzione storica della giurisprudenza in tema d'indennità di disoccupazione, l'Avv. Fraioli, offre alcuni spunti di riflessione critica sulle conclusioni della Corte sul tema della distinzione tra lavoratori stagionali e partimers verticali ai fini della spettanza dell'indennità di disoccupazione.
Indennità di disoccupazione e part time verticale su base annua.
Corte costituzionale n. 121 del 2006 – Pres. Marini – Rel. Bile – C.A. c. Inps
Previdenza ed Assistenza – Assicurazione per la disoccupazione – Lavoro a tempo parziale verticale su base annua – Spettanza – Esclusione
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 38 cost., dell'art. 45, comma 3, R.D.L. 4 ottobre 1935 n. 1827, conv., con modificazioni, in L. 6 aprile 1936 n. 1155, nella parte in cui, nell'interpretazione delle sezioni unite della Corte di cassazione, non contempla tra i lavoratori disoccupati involontari aventi diritto, alle altre condizioni di legge, all'indennità di disoccupazione ordinaria, i lavoratori occupati con contratto a tempo parziale verticale su base annua ultrasemestrale che abbiano chiesto di essere tenuti iscritti nelle liste di collocamento per i periodi di inattività, stante la diversità tra lavoro stagionale, che cessa a fine stagione con conseguente diritto all’indennità di disoccupazione, e lavoro a tempo parziale annuo, che prosegue con affidamento del lavoratore sulla retribuzione per il lavoro che presterà dopo il periodo di pausa.
Ritenuto in fatto
1. – Il Tribunale di Roma, con ordinanza 11 agosto 2003, ha proposto la questione di costituzionalità dell'art. 45, terzo comma, del regio decreto legge 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile 1936, n. 1155, secondo cui «l'assicurazione per la disoccupazione involontaria ha per scopo l'assegnazione agli assicurati di indennità nei casi di disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro». La norma è impugnata nella parte in cui, nell'interpretazione della Corte di cassazione, «non contempla tra i lavoratori disoccupati involontari aventi diritto, alle altre condizioni di legge, all'indennità di disoccupazione ordinaria, i lavoratori occupati con contratto a tempo parziale verticale su base annua ultrasemestrale che abbiano chiesto di essere tenuti iscritti nelle liste di collocamento per i periodi di inattività».
L'ordinanza è stata resa nel giudizio proposto da una lavoratrice a tempo parziale verticale (che nel 1999 aveva lavorato in una mensa scolastica nei mesi di apertura della scuola, ossia da gennaio a giugno e da settembre a dicembre) per ottenere dall'INPS l'indennità di disoccupazione per il periodo di inattività, che l'INPS contestava ritenendo la disoccupazione non “involontaria”.
Il Tribunale richiama anzitutto il “diritto vivente”, sorto sulla base della sentenza delle sezioni unite della Cassazione (n. 1732 del 2003) secondo la quale la libera accettazione, da parte del lavoratore, del tempo parziale verticale su base annua esclude che per i periodi di sospensione dell'attività lavorativa possa ravvisarsi disoccupazione involontaria. E ne ricava l'impossibilità di dare della norma impugnata una lettura diversa.
Ma – a suo avviso – la norma, così interpretata, viola l'art. 3 della Costituzione per irragionevole disparità fra il trattamento da essa riservato ai lavoratori a tempo parziale annuo e quello dei lavoratori stagionali e degli altri assicurati contro la disoccupazione involontaria; e l'art. 38, secondo comma, Cost., che garantisce la tutela del disoccupato anche se la sospensione del lavoro sia prevista, voluta e programmata in relazione al tipo di rapporto instaurato.
A sostegno della non manifesta infondatezza della questione il Tribunale ricorda che la Corte costituzionale (sentenza n. 160 del 1974) ha dichiarato non fondata, «nei sensi di cui in motivazione», la questione di costituzionalità dell'art. 76 del r.d.l. n. 1827 del 1935, affermando che i soggetti rimasti privi di lavoro nei periodi di sosta del lavoro stagionale hanno diritto all'indennità di disoccupazione, purché chiedano l'iscrizione nelle liste di collocamento per altre occupazioni; ed ha, poi (sentenza n. 132 del 1991), esteso per analogia tali conclusioni al lavoro a tempo parziale annuo, dichiarando incostituzionale l'art. 17, comma secondo, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, nella parte in cui escludeva, in alcune ipotesi, per le lavoratrici assunte con tale tipo di contratto, il diritto all'indennità giornaliera di maternità, che avrebbe dovuto sostituire quella di disoccupazione.
2. – La parte privata si è costituita, riservandosi di depositare memoria. Anche l'INPS si è costituito, rilevando che il Tribunale avrebbe dovuto censurare le norme del Capo VI, Sezione III, del r.d.l. n. 1827 del 1935, e non l'art. 45, che non individua direttamente i tipi di lavoro subordinato cui possa conseguire uno stato di disoccupazione involontaria; e, nel merito, ricordando che la giurisprudenza di legittimità ha già dichiarato la questione di legittimità costituzionale manifestamente infondata.
Prima dell'udienza dell'8 febbraio 2005 la parte privata ha depositato una memoria.
3. – A seguito di tale udienza la Corte, con ordinanza istruttoria del 3 marzo 2005, ha richiesto alla Presidenza del Consiglio dei ministri la documentazione e i dati relativi: al numero delle controversie promosse nei confronti dell'INPS da lavoratori occupati con contratti di lavoro a tempo parziale di tipo verticale su base annua (previsti dall'art. 5 del decreto-legge 30 ottobre 1984, n. 726 recante «Misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali», convertito in legge 19 dicembre 1984, n. 863), per richiedere il pagamento dell'indennità di disoccupazione per i periodi di mancato espletamento della prestazione lavorativa; al numero di lavoratori che potrebbero richiedere tale indennità; al presumibile importo dell'onere aggiuntivo per l'INPS per l'eventuale pagamento dell'indennità di disoccupazione nei rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo verticale su base annua, per i periodi di mancato espletamento della prestazione lavorativa.
Acquisita tale documentazione – comunicata dall'INPS alla Presidenza del Consiglio dei ministri e da questa trasmesso alla Corte con nota del 24 giugno 2005 – la questione è stata chiamata all'udienza odierna, in prossimità della quale la parte privata ha depositato una nuova memoria.
Considerato in diritto
1. – È sottoposta alla Corte la questione di costituzionalità dell'art. 45, terzo comma, del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile 1936, n. 1155, secondo cui «l'assicurazione per la disoccupazione involontaria ha per scopo l'assegnazione agli assicurati di indennità nei casi di disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro». Il giudice rimettente ritiene che la norma violi gli artt. 3 e 38 della Costituzione nella parte in cui, nell'interpretazione delle sezioni unite della Cassazione, «non contempla tra i lavoratori disoccupati involontari aventi diritto, alle altre condizioni di legge, all'indennità di disoccupazione ordinaria, i lavoratori occupati con contratto a tempo parziale verticale su base annua ultrasemestrale che abbiano chiesto di essere tenuti iscritti nelle liste di collocamento per i periodi di inattività».
2. – L'INPS ha eccepito l'inammissibilità della questione di costituzionalità, sotto il profilo che il rimettente avrebbe dovuto censurare le norme del Capo VI, Sezione III, del r.d.l. n. 1827 del 1935, in particolare l'art. 76, piuttosto che l'art. 45, norma di valenza generale, che non individua direttamente i lavoratori assistibili e le tipologie di lavoro subordinato alla cui cessazione possa conseguire uno stato di disoccupazione involontaria.
L'eccezione è infondata. Il rimettente dichiara di censurare la «norma» che (secondo le sezioni unite della Corte di Cassazione) non ravvisa «disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro» nel caso del lavoratore a tempo parziale verticale ultrasemestrale su base annua che abbia chiesto di rimanere iscritto, per il periodo di inattività, nelle liste di collocamento; e individua tale norma nell'art. 45, comma terzo, del r.d.l. n. 1827 del 1935. Pertanto l'atto avente forza di legge impugnato è sufficientemente identificato; e la sua collocazione nella disposizione dell'art. 45, comma terzo, del r.d.l. n. 1827 del 1935 non è implausibile, poiché proprio tale comma enuncia il requisito dell'involontarietà dello stato di disoccupazione.
3. – Nel merito la questione non è fondata.
4. – L'art. 45 del r.d.l. n. 1827 del 1935, nel fissare l'oggetto delle assicurazioni obbligatorie, stabilisce, al comma terzo, che «l'assicurazione per la disoccupazione involontaria ha per scopo l'assegnazione agli assicurati di indennità nei casi di disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro». Il successivo art. 73 precisa che la prestazione consiste in un'indennità giornaliera di un dato ammontare, e ribadisce che il diritto sorge «in caso di disoccupazione involontaria».
Dal suo canto l'art. 76 dello stesso regio decreto-legge n. 1827 esclude, al primo comma, la spettanza dell'indennità in due casi di lavorazioni intermittenti, caratterizzate dall'alternanza di periodi di attività lavorativa e periodi di inattività: «la disoccupazione nei periodi di stagione morta, per le lavorazioni soggette a disoccupazione stagionale, e quella relativa a periodi di sosta, per le lavorazioni soggette a normali periodi di sospensione».
La portata della norma è stata innovata radicalmente dalla sentenza di questa Corte n. 160 del 1974, che ha dichiarato non fondata «nei sensi di cui in motivazione» la questione di legittimità costituzionale dell'art. 76, comma 1, ritenendo che in base ad esso «il lavoratore, rimasto privo di lavoro durante tale periodo [di sosta], può senz'altro acquisire il diritto all'indennità di disoccupazione» purché «chieda la iscrizione nelle liste di collocamento per altre occupazioni». L'interpretazione adeguatrice della Corte si fonda sull'affermazione che nel lavoro stagionale la prevedibilità del rischio di disoccupazione, fisiologico per la naturale alternanza di periodi di attività produttiva e periodi di sosta, non basta a rendere la disoccupazione volontaria.
La Corte è poi tornata sul tema con la sentenza n. 132 del 1991, dopo che l'art. 5 del decreto-legge n. 726 del 1984 aveva introdotto la figura del lavoro a tempo parziale. La sentenza – nel dichiarare parzialmente incostituzionale l'art. 17, comma secondo, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sulla tutela delle lavoratrici madri, con particolare riguardo a quelle assunte con rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo verticale su base annua – in motivazione ha richiamato la sentenza n. 160 del 1974, ponendo in rilievo che essa si era occupata della disoccupazione conseguente al periodo di sosta nei rapporti di lavoro stagionali, definiti «analoghi a quello qui considerato».
La giurisprudenza della Corte di cassazione in un primo momento ha ritenuto che il lavoratore a tempo parziale annuo abbia diritto all'indennità di disoccupazione per i periodi di sospensione della sua prestazione tra una fase di lavoro e l'altra, purché per tali periodi risulti iscritto nelle liste di collocamento. Ma in seguito è sorto sul punto un contrasto composto dalle sezioni unite con la sentenza n. 1732 del 2003. La sentenza ha affermato che l'indennità di disoccupazione non spetta in nessun caso di lavoro a tempo parziale su base annua, in quanto – da un lato – la stipula di un tale contratto «dipende dalla libera volontà del lavoratore contraente e perciò non dà luogo a disoccupazione involontaria indennizzabile nei periodi di pausa» e – dall'altro – questa conclusione non contraddice la disciplina della disoccupazione involontaria per i lavori stagionali, che non può essere estesa in via analogica ai lavori a tempo parziale su base annua.
5. - Il giudice rimettente – partendo da tale sentenza – ritiene impossibile sottoporre a interpretazione adeguatrice una norma di cui le sezioni unite hanno dato un'interpretazione divenuta poi “diritto vivente”. Ma, a suo avviso, questa interpretazione è contraria alla giurisprudenza costituzionale, in particolare in quanto la scelta del lavoratore di accettare, «liberamente e volontariamente», un lavoro a tempo parziale verticale annuo non è indice di volontarietà della condizione di non occupazione per il periodo contrattuale di inattività, più di quanto non lo sia, di per sé, l'accettazione del lavoro stagionale cui si è riferita la sentenza di questa Corte n. 160 del 1974; ed in quanto l'estensione analogica della disciplina del lavoro stagionale a quello a tempo parziale, rifiutata dalle sezioni unite, è stata invece ammessa dalla citata sentenza n. 132 del 1991. Ne consegue, secondo il rimettente, la violazione dell'art. 3 della Costituzione, per irragionevole disparità di trattamento dei lavoratori a tempo parziale verticale rispetto ai lavoratori stagionali e agli altri lavoratori fruenti dell'assicurazione contro la disoccupazione involontaria; e dell'art. 38, comma secondo, della Costituzione che garantisce una qualche tutela al disoccupato involontario pur se la sospensione del lavoro sia prevista, voluta e programmata in relazione al tipo di rapporto instaurato, quando ciò derivi dalle condizioni del mercato del lavoro.
6. – La prima delle citate decisioni (sentenza n. 160 del 1974) ha fornito un'interpretazione adeguatrice dell'art. 76 del r.d.l. n. 1827 del 1935, nel senso che nel lavoro stagionale l'indennità di disoccupazione spetta nei periodi di “stagione morta”, ed ha così attratto questo tipo di lavoro nella regola generale secondo cui la disoccupazione involontaria comporta il diritto alla relativa indennità.
Ma rispetto al lavoro stagionale (soggetto a tale regola) il tipo contrattuale del tempo parziale verticale presenta sicuri elementi di differenziazione. In particolare, nel lavoro stagionale il rapporto cessa a “fine stagione”, sia pure in vista di una probabile nuova assunzione stagionale; nel lavoro a tempo parziale verticale invece il rapporto “prosegue” anche durante il periodo di sosta, pur con la sospensione delle corrispettive prestazioni, in attesa dell'inizio della nuova fase lavorativa. Pertanto il lavoratore stagionale non può contare sulla retribuzione derivante dall'eventuale nuovo contratto, mentre il lavoratore a tempo parziale può fare affidamento sulla retribuzione per il lavoro che presterà dopo il periodo di pausa.
L'esclusione del diritto all'indennità di disoccupazione per i periodi di mancata prestazione dell'attività lavorativa nei rapporti di lavoro a tempo parziale verticale su base annua non viola quindi l'art. 3 della Costituzione, per le differenze esistenti tra le due situazioni poste a confronto. Né viola l'art. 38 Cost., perché nel tempo parziale verticale il rapporto di lavoro perdura anche nei periodi di sosta, assicurando al lavoratore una stabilità ed una sicurezza retributiva, che impediscono di considerare costituzionalmente obbligata una tutela previdenziale (integrativa della retribuzione) nei periodi di pausa della prestazione.
7. – Questa conclusione non trova ostacoli nella sentenza n. 132 del 1991. Con essa la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 17, comma secondo, della legge n. 1204 del 1971, sul diritto delle lavoratrici all'indennità giornaliera di maternità, «nella parte in cui, per le lavoratrici con contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale su base annua, allorquando il periodo di astensione obbligatoria abbia inizio più di 60 giorni dopo la cessazione della precedente fase di lavoro, esclude il diritto all'indennità giornaliera di maternità, anche in relazione ai previsti successivi periodi di ripresa dell'attività lavorativa». Questa esclusione comportava, per la Corte, «una palese incoerenza, tale da determinare un'ingiustificabile disparità di trattamento» lesiva dell'art. 3 della Costituzione, in quanto «la lavoratrice, per effetto della maternità, viene a perdere una retribuzione di cui avrebbe certamente – e non solo probabilmente – goduto se non si fosse dovuta astenere dal lavoro in ragione del suo stato». Tale motivazione sorregge compiutamente ed esaustivamente la dichiarazione di incostituzionalità della norma, onde il successivo richiamo al lavoro stagionale considerato dalla sentenza del 1974, ed al suo carattere “analogo” rispetto al lavoro a tempo parziale verticale su base annua, è del tutto estraneo alle ragioni che hanno condotto alla decisione.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 45, terzo comma, regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile 1936, n. 1155, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 38 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.
NOTA
L’indennità di disoccupazione non è costituzionalmente obbligata per il lavoratore a tempo parziale verticale su base annua.
Sommario: 1. - Lo stato dell’arte; 2. - La sentenza della Corte costituzionale n. 121 del 20 marzo 2006: i fatti di causa; 3. - Le motivazioni della Corte costituzionale: spunti di riflessione.
1. - Lo stato dell’arte. - La disciplina dell’indennità di disoccupazione, con le sue limitazioni ed esclusioni, ha origini lontane, con il R.D.L. n. 1827 del 1935. L’art. 40 della suddetta normativa esclude dall’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria alcune categorie di lavoratori, tra i quali quelli che prestano l’opera alle dipendenze altrui solo occasionalmente, nonché coloro i quali prestano attività in lavorazioni che si compiano annualmente in determinati periodi dell’anno di durata non inferiori a sei mesi.
L’art. 76 dello stesso regio decreto, al 1° comma stabilisce che “la disoccupazione nei periodi di stagione morta, per le lavorazioni soggette a disoccupazione stagionale, e quella relativa a periodi di sosta, per le lavorazioni soggette a normali periodi di sospensione, non danno diritto all’indennità”.
L’Inps, erogatore materiale dell’indennità di disoccupazione, negava il diritto dei succitati lavoratori al percepimento dell’indennità di disoccupazione, argomentando dalla nozione assicurativa di disoccupazione involontaria. Secondo l’Istituto la disoccupazione relativa ai periodi di inattività non poteva qualificarsi quale disoccupazione involontaria poiché tali periodi costituivano modalità esecutive delle prestazioni accettate dal lavoratore al momento della stipulazione del contratto e quindi a questo imputabili a titolo di disoccupazione volontaria.
Nel 1974, la Corte costituzionale veniva investita della questione di legittimità costituzionale delle norme del regio decreto citato, in relazione all’esclusione dell’indennità di disoccupazione per i periodi di “non lavoro”.
La Corte, con una sentenza interpretativa, rigettò la questione di costituzionalità, a condizione però che la legge venisse interpretata nel senso di considerare involontaria, e quindi indennizzabile, anche la disoccupazione relativa ai periodi di inattività con riferimento al lavoro stagionale e ai lavori sottoposti a periodi di sosta, sempre che il lavoratore si facesse parte attiva nella ricerca di altra occupazione iscrivendosi nelle liste di collocamento .
La situazione legislativa mutava a seguito della prima introduzione, nell’ordinamento italiano, della regolamentazione del lavoro a tempo parziale, avvenuta dapprima con il decreto legge n. 726 del 30 ottobre 1984, art. 5, convertito in legge n. 863 del 12 dicembre 1984, oggi abrogato dal d. lgs. n. 61 del 2000.
Successivamente, con la legge n. 160 del 20 maggio 1988, legge di conversione del d. l. n. 88 del 1986, il legislatore provvedeva a rimuovere l’esclusione dall’indennità di disoccupazione per i lavoratori occasionali e stagionali ed introduceva il regime di prestazione c.d. a requisiti ridotti, indispensabile per i nuovi lavori precari e di breve durata.
Le problematiche sorsero a seguito delle richieste dell’indennità di disoccupazione da parte dei lavoratori partimers verticali all’Inps, il quale le rifiutò sempre facendo leva sul concetto di volontarietà del loro stato di disoccupazione.
Il primo contatto ravvicinato tra il lavoro a tempo parziale e l’indennità di disoccupazione si è avuto con la sentenza della Corte costituzionale n. 132 del 1991, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, 2° comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, nella parte in cui esclude il diritto all’indennità giornaliera di maternità per le lavoratrici con contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale su base annua, allorquando il periodo di astensione obbligatoria abbia inizio oltre il sessantesimo giorno dopo la cessazione della precedente fase di lavoro .
In questa pronuncia, la Corte riprendeva le motivazioni della sentenza n. 160 del 1974 per estendere analogicamente al lavoro a tempo parziale su base verticale gli stessi criteri utilizzabili nei periodi di sosta: “la disoccupazione conseguente al periodo di sosta, nei rapporti di lavoro analoghi a quello qui considerato, non può ritenersi volontaria per il lavoratore in conseguenza del fatto di aver volontariamente accettato quel tipo di attività, il più delle volte imposta dalle condizioni di mercato di lavoro: sicché, alla stregua di quanto affermato nella medesima sentenza, la lavoratrice rimasta priva di lavoro durante il periodo intercorrente tra una fase di lavoro e l’altra di un rapporto a tempo parziale annuo, può senz’altro acquisire, in tale periodo, il diritto all’indennità di disoccupazione allorché sussistano gli altri requisiti dai quali tale diritto prende vita, tra i quali l’iscrizione nelle liste di collocamento”.
Successivamente a tale pronuncia, le prime richieste per accedere al trattamento di disoccupazione furono inoltrate all’Inps, il quale, naturalmente, non esitò a contestarle.
Sottoposta al vaglio della Suprema Corte, questa, nel 1999, con la sentenza n. 1141, stabilì il principio in base al quale “un periodo di sospensione del rapporto di lavoro, di assenza quindi di prestazione di lavoro come di retribuzione, è un periodo di disoccupazione non diversamente da un uguale intervallo di tempo al cui inizio un imprenditore si sia impegnato ad assumere il lavoratore al termine dell’intervallo stesso. Non sembra, cioè, rilevante, al fine di escludere lo stato di disoccupazione, l’esistenza di un vincolo contrattuale che assicuri in un momento futuro il lavoro e la retribuzione” .
Contrariamente a questa linea interprativa della Suprema Corte, si pose un secondo indirizzo giurisprudenziale di legittimità, aperto con la sentenza n. 3746 del 2000 , secondo il quale, fermo restando il generico diritto anche in caso di sospensione del lavoro a tempo parziale, lo stesso veniva limitato ai soli soggetti che avevano prestato attività lavorativa per un periodo inferiore a 180 giorni per anno solare. Su questa stessa linea si posero le due successive sentenze della Suprema Corte nn. 2802 e 2804 del febbraio 2001 .
Per dirimere il contrasto sorto in seno alle diverse sezioni della Suprema Corte, sono intervenute le sezioni unite, con la sentenza n. 1732 del 2003 , la quale ha fornito un’interpretazione che rifiuta entrambi i due orientamenti. Le sezioni unite, invero, hanno negato che il trattamento di disoccupazione sia esteso ai lavoratori a tempo parziale verticale, sulla considerazione che “la stipulazione di un contratto di lavoro a tempo parziale su base annua dipende dalla libera volontà del lavoratore contraente e perciò non dà luogo a disoccupazione involontaria, ossia indennizzabile, nei periodi di pausa”.
Per motivare tale pronuncia, la Corte ha fatto riferimento al dettato legislativo dell’art. 5, comma 1°, della legge n. 863 del 1984, ritenendo che il concetto di volontarietà fosse riconducibile all’espressione “lavoratori disponibili a svolgere”.
Per le sezioni unite, poi, la sentenza della Consulta n. 132 del 1991 non può influire sulla questione perché concernente il diverso ambito della maternità, riconducibile all’art. 37, comma 1°, della Costituzione: “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
Le sezioni unite hanno dunque ritenuto che rientri nelle ampie facoltà del legislatore la scelta “se ed in che modo favorire la conclusione dei contratti di lavoro a tempo parziale … in modo tuttavia da evitare un ampliamento degli indennizzi rimesso sostanzialmente a scelte dei privati e tale da risolversi in un finanziamento permanente della sottoccupazione”, così anche come è di competenza del legislatore “ … - e perciò non può risultare da automatiche estensioni per analogia in sede di interpretazione-applicazione delle leggi vigenti - la costruzione di trattamenti di disoccupazione variabili a seconda della gravità della situazione di bisogno, propria di chi fruisca di un’occupazione a tempo ridotto, solo in presenza di un’effettiva mancanza di reddito e di non imputabilità al singolo” .
Da ultimo, è intervenuto il legislatore che, con la legge n. 80 del 2005, all’art. 13, ha esplicitamente escluso il diritto dei lavoratori a tempo parziale verticale alla percezione dell’indennità di disoccupazione. Tale intervento legislativo si è occupato anche dell’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, molto criticata in dottrina perché si traduceva, in sostanza, in un sostegno al reddito ai lavoratori sottoccupati e prescindeva quindi dall’accertamento della volontarietà o meno della condizione di disoccupazione.
Su queste problematiche si è inserita, qualche anno prima, la legislazione di cui al d. lgs. n. 181 del 2000 e al d. lgs. n. 297 del 2002 che ha slegato l’acquisizione dello status di disoccupato dalla formale iscrizione nelle liste di collocamento. Questa legislazione ha invece introdotto il concetto di “soggetto svantaggiato”, inteso cioè come destinatario di incentivi all’inserimento nel mercato del lavoro.
La problematica sollevata dalla dottrina è stata quella se il concetto di disoccupato (rectius: soggetto svantaggiato) introdotto dalla citata legislazione, fosse valido ai soli fini delle c.d. politiche attive per l’impiego, o fosse invece estendibile anche ai fini del diritto alla percezione dell’indennità di disoccupazione sia ordinaria, sia a requisiti ridotti .
L’elemento innovativo e di fondamentale importanza, introdotto con il d. lgs. n. 181 del 2000, modificato dal d. lgs. n. 297 del 2002, è quello di aver posto come conditio al percepimento dell’indennità di disoccupazione non solo “l’immediata disponibilità allo svolgimento ed alla ricerca di un’attività lavorativa secondo modalità definite con i servizi competenti”, ma anche il mancato superamento di una certa soglia reddituali, stabilita in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni del 10.12.2003 .
A ben vedere, la previsione di un importo così modesto per essere considerato dall’ordinamento “soggetto svantaggiato”, farebbe sì che la maggior parte dei fruitori dell’attuale indennità di disoccupazione a requisiti ridotti, sarebbe esclusa da tale trattamento; inoltre, funzionando l’indennità di disoccupazione per i partimers verticali come una vera e propria integrazione del reddito conseguito nell’anno precedente, sembrerebbe improbabile far leva sugli argomenti legati alla volontarietà delle parti nella scelta del tipo contrattuale, argomento tanto caro alla Consulta in quest’ultima sentenza in commento, al fine di escludere l’indennità in questione. Invero, l’Inps, erogatore materiale di quest’indennità, non richiede al lavoratore alcuna giustificazione in merito alla volontarietà o involontarietà ad essere disoccupati .
Non si è fatta da ultimo attendere l’ultima circolare Inps del 13 aprile 2006, n. 55, con la quale l’Istituto, forte della pronuncia n. 121 del 2006 della Corte costituzionale, ha ribadito ulteriormente che i periodi di inattività in caso di lavoro a part time di tipo verticale non possono essere indennizzati né con l’indennità di disoccupazione ordinaria con requisiti normali, né con l’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti .
2. La sentenza della Corte costituzionale n. 121 del 20 marzo 2006: i fatti di causa.
Con ordinanza dell’11 agosto 2003, il Tribunale di Roma aveva proposto la questione di legittimità costituzionale contro l’art. 45, 3° comma, del R.D.L. n. 1827 del 1935, secondo cui “l’assicurazione per la disoccupazione involontaria ha per scopo l’assegnazione agli assicurati di indennità nei casi di disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro”.
L’impugnazione della norma concerneva il fatto che, secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione a sezioni unite, tra i lavoratori disoccupati involontari, aventi diritto al trattamento di disoccupazione, non vengono contemplati “i lavoratori occupati con contratto a tempo parziale verticale su base annua ultrasemestrale che abbiano chiesto di essere tenuti iscritti nelle liste di collocamento per i periodi di inattività”.
Nella specie, si trattava di una lavoratrice a tempo parziale verticale, che nel 1999 aveva lavorato in una mensa scolastica nei mesi di apertura della scuola (gennaio-giugno e settembre-dicembre) e rivendicava la corresponsione dell’indennità di disoccupazione per il periodo di inattività, richiesta che l’Inps contestava ritenendo la disoccupazione non “involontaria”.
Secondo il Tribunale di Roma, l’interpretazione dell’art. 45 citato sarebbe stata incostituzionale per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, laddove introduceva una irragionevole disparità di trattamento tra i lavoratori a tempo parziale verticale e i lavoratori stagionali, nonché per violazione dell’art. 38 della Costituzione che garantisce l’incondizionata tutela del disoccupato, anche se la sospensione del lavoro sia prevista, voluta e programmata in relazione al tipo di lavoro prestato.
3. - Le motivazioni della Corte costituzionale: spunti di riflessione.
La Corte costituzionale, con la pronuncia n. 121 del 2006, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, sostenendo che l’indennità di disoccupazione spetta solo nel lavoro stagionale, laddove vi sono periodi di stagione morta, indipendenti ed involontari dal lavoratore: infatti, il lavoro stagionale termina a fine stagione, sia pure in vista di una probabile nuova assunzione stagionale. Invece, il rapporto di lavoro a tempo parziale verticale non cessa nei periodi di “non lavoro”, ma prosegue anche in tali intervalli, pur con la sospensione delle prestazioni corrispettive.
Tale situazione ha portato la Corte a statuire che il lavoratore stagionale non può far fede sulla retribuzione derivante dall’eventuale nuovo contratto, mentre il lavoratore a tempo parziale può certamente fare affidamento sulla retribuzione per il lavoro che presterà dopo il periodo di sosta .
Pertanto, l’esclusione del diritto all’indennità di disoccupazione per i lavoratori a tempo parziale verticale non viola l’art. 3 della Costituzione, in virtù delle oggettive differenze esistenti tra i due diversi tipi di rapporto di lavoro. Non è nemmeno in contrasto con l’art. 38 della Costituzione giacché, nel contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, il rapporto prosegue anche nei periodi di sosta, assicurando così al lavoratore una stabilità ed una sicurezza retributiva che non consentono di considerare costituzionalmente obbligata una tutela previdenziale, integrativa della retribuzione, nei periodi di pausa della prestazione.
Tali motivazioni del Giudice delle leggi si prestano a non poche critiche. Invero la presunta distinzione dedotta dalla Consulta tra lavoro stagionale e part time di tipo verticale sarebbe in realtà insussistente, giacché si fonda sull’errato presupposto che il lavoro stagionale non possa essere dedotto sia in un contratto di lavoro a tempo indeterminato a tempo parziale su base verticale, sia di un contratto a tempo determinato (a termine).
La questione di costituzionalità posta dal giudice a quo, concerneva l’interpretazione restrittiva che la Cassazione ha voluto fornire del diritto vivente, riguardo all’interpretazione ed applicazione di una legge ordinaria (art. 45, R.D.L. n. 1827 del 1935).
Proprio questa pronuncia delle sezioni unite, la n. 1732 del 2003, nell’interpretare restrittivamente l’art. 45 citato, si è posta in aperto contrasto con la sentenza n. 160 del 1974 della Corte costituzionale la quale, estendendo analogicamente gli stessi criteri utilizzabili per i periodi di sosta, recepiti poi dalla Corte costituzionale n. 132 del 1991, al rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, aveva fornito un’interpretazione più coerente e logica rispetto all’intero sistema normativo, e cioè nel senso di attribuire ai disoccupati involontari il diritto a ricevere mezzi adeguati a tener fronte alle esigenze di vita derivanti da tale stato di indigenza.
La sentenza della Corte costituzionale (n. 132 del 1991) ha stabilito che “la disoccupazione conseguente al periodo di sosta, nei rapporti di lavoro analoghi a quello qui considerato (n.d.r. contratto part time verticale su base annua), non può ritenersi volontaria per il lavoratore in conseguenza del fatto di aver volontariamente accettato quel tipo di attività, il più delle volte imposta dalle condizioni del mercato del lavoro”.
Pertanto, l’interpretazione fornita dalle sezioni unite della Cassazione appariva in contrasto con riferimento sia all’art. 3 della Costituzione (irragionevole disparità di trattamento per i lavoratori partimers rispetto ai lavoratori stagionali), sia con riferimento all’art. 38, 2° comma della Costituzione che prevede la tutela per i disoccupati involontari.
La sentenza della Corte costituzionale in commento, invero, non potendo palesemente sconfessare il chiaro principio stabilito dai propri precedenti del 1974 e del 1991 in ordine al concetto di involontarietà dello status di disoccupazione, cerca le sue ragioni sulla differenza esistente tra le due tipologie contrattuali. La componente formalistica della cessazione del rapporto di lavoro per i lavoratori stagionali rispetto alla persistenza del rapporto nei partimers verticali, fa credere alla Corte di aver agevolmente superato l’ostacolo della violazione del principio di uguaglianza in ragione della pretesa sostanziale differenza tra i due contratti e quindi della loro non confrontabilità ai fini dell’art. 3 della Costituzione.
Ma, come detto, il notevole esercizio del Giudice delle leggi ha pregio solo da un punto di vista formale, perché il problema sostanziale resta.
La decisione della Corte costituzionale, secondo parte della dottrina, sarebbe da ricercarsi nella considerazione delle esigenze di bilancio dalle quali il Giudice delle Leggi non potrebbe non prescindere. Una pronuncia in senso opposto avrebbe legittimato una dilatazione dell’indennità di disoccupazione rimesso sostanzialmente a scelte dei privati, così da risolversi in un finanziamento permanente della sottoccupazione .
La decisione della Corte in commento, comunque, si pone anche in contrasto rispetto all’impianto normativo comunitario in materia.
Invero, la direttiva CE 97/81, che ha recepito l’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, prevedendo un ampio sviluppo del part time quale forma di lavoro valida per promuovere l’occupazione, stabilisce “un quadro generale per l’eliminazione delle discriminazioni verso i lavoratori a tempo parziale e di contribuire allo sviluppo delle possibilità di lavoro a tempo parziale su basi accettabili sia ai datori di lavoro che ai lavoratori”.
Ora, negando il diritto ai partimers verticali al trattamento di disoccupazione, induce i lavoratori a preferire un’assunzione a termine (stagionale), certi del fatto che a fine contratto spetterà certamente loro il trattamento di disoccupazione, con ulteriore precarizzazione del rapporto.
Dunque, stando a quanto disposto dal legislatore comunitario, l’indennità di disoccupazione dovrebbe spettare anche ai lavoratori a tempo parziale verticale .
Si potrebbe però, a ben vedere, ragionare in un modo diverso che potrebbe avallare la decisione tanto discussa, presa dalla Consulta.
Invero, il contratto di lavoro a tempo parziale si è affermato, dapprima nel contesto sociale e conseguentemente in quello normativo italiano, come un contratto di lavoro atipico, che non garantiva una “piena occupazione” per il lavoratore che lo sceglieva o lo “subiva”. Il presupposto implicito sul quale era costruita tale forma contrattuale si basava sul fatto che il lavoratore a tempo parziale, tendesse a ricercare due o più rapporti lavorativi, in modo da ricondurre il part time ad una fattispecie “tipica” di lavoro a tempo pieno.
La conseguenza di questa impostazione è stata quella di considerare il partimer come un lavoratore occupato solo “parzialmente”, o meglio come un disoccupato a metà. Su queste basi si colgono allora le forti opposizioni dottrinarie alla scelta della Corte costituzionale che ha negato il diritto dell’indennità di disoccupazione.
Se questi sono i presupposti, la Corte costituzionale con la sentenza oggetto di commento, ha voluto in un certo senso considerare il rapporto di lavoro a tempo parziale alla stregua di un normale rapporto di lavoro, nel senso fatto proprio dall’ordinamento comunitario attuale: il part time non deve essere considerato alla stregua di un lavoro atipico precario, ma deve essere considerato come una normale forma di occupazione .
Questa linea di tendenza trova conferma, da ultimo, nella riforma del lavoro attuata con il d. lgs. n. 276 del 2003: invero, l’art. 46, che si occupa del lavoro a tempo parziale, amplia le ipotesi di lavoro supplementare e rimette alla libera scelta del singolo lavoratore lo svolgimento di prestazioni di lavoro straordinario, così riducendo la formale distinzione tra lavoro a tempo pieno e lavoro a tempo parziale.
Insomma, il lavoro a tempo parziale deve essere oramai considerato quale tipologia ordinaria di contratto di lavoro e non sembrano quindi infondate le conclusioni alle quali giunge la Corte costituzionale, anche se su presupposti diversi .
Tali considerazioni non intendono trascurare la situazione d’indigenza nella quale vengano a trovarsi i lavoratori a tempo parziale verticale; piuttosto si vuole segnalare come gli attuali problemi della protezione e sicurezza sociale dei lavoratori impiegati con forme “flessibili” di lavoro, derivino da una più ampia necessità di una rivisitazione dell’intero sistema del welfare.
Questa sentenza rappresenta l’ulteriore sintomo dell’attuale inefficacia del sistema di protezione sociale, che dovrebbe essere riformato come già da tempo auspicato dalla migliore dottrina . Tale riforma dovrebbe tener conto della protezione da accordare a quei tipi di lavoratori cosìdetti flessibili (i quali rappresentano oramai la realtà del mondo del lavoro), specificando ed armonizzando il loro accesso alle forme di tutela .
La riforma dovrebbe andare nella direzione, già intrapresa in altri stati europei, del raccordo tra istituti previdenziali ed assistenziali cd. “passivi” (tradizionali) ed i nuovi strumenti di politica attiva del lavoro (c.d. strumenti di workfare), al fine di scongiurare un’inevitabile distacco tra la sicurezza dei lavoratori assunti stabilmente e il variegato arcipelago dei c.d. contingent workers .
In tale prospettiva, il punto cruciale della riforma dovrebbe investire la considerazione dei periodi di non lavoro come periodi di formazione, di aggiornamento e di disponibilità.
In conclusione quindi, non sarebbe la decisione della Corte costituzionale ad essere irragionevole, quanto piuttosto l’attuale sistema legislativo di welfare che, non prevedendo integrazioni reddituali ai lavoratori che svolgono attività lavoratori a tempo parziale su base verticale, non ha consentito alla Corte di decidere in modo diverso.
Antonio L. Fraioli
Dottorando di ricerca
nell’Università di Roma
“Tor Vergata”