Con una recente pronuncia il Tribunale di Perugia ha esaminato la questione dell'individuazione del contratto collettivo di riferimento per la determinazione del c.d. minimale contributivo
Il caso sottoposto all'attenzione del giudice era quello di un accertamento ispettivo condotto dall'Inps conclusosi con l'addebito di contributi a carico dell'azienda ispezionata sul rilievo che questa aveva versato i contributi sulla base del contratto collettivo dalla medesima applicato in misura inferiore rispetto al minimale contributivo dovuto ove fosse stato applicato il c.d. contratto collettivo leader ossia il contratto stipulato da Confcommercio CIGL CISL e UIL.
Nel caso di specie l'azienda applicava invece il contratto CISAL che, tra l'altro, non prevedeva l'erogazione della quattordicesima mensilità. Il c.d. minimale contributivo è stato introdotto dal Legislatore con l'art. 1 comma 1 del d.l. n. 38 del 1989 il quale prevede che “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. Tale norma è stata successivamente interpretata autenticamente dal comma 25 dell’art. 2 della l. n. 549/95 il quale prevede che “L'art. 1 del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, si interpreta nel senso che, in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria”.
La difesa dell'azienda poneva, da un lato, un problema di costituzionalità della norma per le sue ricadute applicative osservando che essa comporta una maggiore afflittività contributiva a carico di lavoratori dipendenti che in effetti percepiscono livelli di retribuzione più bassi (nel caso specifico si trattava dei lavoratori dipendenti la cui retribuzione era determinata sulla base del contratto CISAL rispetto ai lavoratori dipendenti la cui retribuzione fosse determinato dal contratto c.d. leader).
Inoltre si osservava che, sulla base della norma di interpretazione autentica, doveva ritenersi che sussistesse una pluralità di organizzazioni sindacali legittimate, in ciascun settore, a stipulare contratti collettivi idonei a fungere da parametro per l'individuazione del minimale contributivo purchè le stesse fossero, tempo per tempo, qualificabili come comparativamente più rappresentative. Si osservava che una di tali organizzazioni dovesse essere ritenuta la CISAL. Il giudice ha ritenuto non fondate le questioni di costituzionalità sollevate e che, invece, in ciascun settore debba essere individuato un solo contratto comparativamente più rappresentativo cui parametrare il minimale contributivo. Qui di seguito i passaggi della motivazione.
Tribunale di Perugia - sent. 4 ottobre 2019
2. In secondo luogo, l’Inps ha posto a carico della società opponente il maggiore contributo derivante dall’assunzione, quale base imponibile, della retribuzione individuata ai sensi dell’art. 1 comma 1 del d.l. n. 338 del 1989 il quale prevede che “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. Tanto sulla premessa che la società opponente ha, invece, riconosciuto ai suoi dipendenti la retribuzione stabilita dal CCNL Confcommercio Cisal stipulato in data 3 luglio del 2012 il quale, però, prevede livelli retributivi inferiori rispetto al CCNL siglato da Confcommercio, CGIL, CISL UIL, organizzazioni, queste, notoriamente più rappresentative sul piano nazionale. A tale riguardo la società opponente, ha eccepito la carenza di prova in ordine alla maggiore rappresentatività di CGIL CISL UIL nel settore e l’illegittimità costituzionale della norma e delle sue implicazioni a carico di lavoratori che, pur percependo retribuzioni effettive inferiori rispetto a quelle percepite da lavoratori cui s’applica effettivamente il CCNL c.d. leader sono gravati da analogo carico contributivo. Al riguardo, deve rilevarsi che il comma 25 dell’art. 2 della l. n. 549/95, con norma di interpretazione autentica dell’art. 1 del d.l. n. 338/1989 ha stabilito che “L'art. 1 del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, si interpreta nel senso che, in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria”.
Al riguardo, in senso contrario rispetto agli argomenti spesi dalla difesa di parte opponente per sostenere l’illegittimità dell’avviso di addebito vanno richiamate, in quanto, condivise le deduzioni svolte dall’Inps nella propria memoria di costituzione.
Con riferimento al merito dell’addebito, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19284 del 2017 ha evidenziato che: “L'importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all'importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (cosiddetto minimale contributivo), secondo il riferimento ad essi fatto - con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale - dall'art. 1 del d.l. n. 338 del 1989, convertito dalla l. n. 389 del 1989, senza le limitazioni derivanti dall'applicazione dei criteri di cui all'art. 36 Cost. (cosiddetto minimo retributivo costituzionale), che sono rilevanti solo quando a detti contratti si ricorre - con conseguente influenza sul distinto rapporto di lavoro - ai fini della determinazione della giusta retribuzione; né è configurabile la violazione dell'art. 39 Cost., alla stregua dei principi espressi con la sentenza della Corte costituzionale n. 342 del 1992, per via dell'assunzione di efficacia "erga omnes" dei contratti collettivi nazionali, essendo l'estensione limitata - secondo la previsione della legge - alla parte economica dei contratti soltanto in funzione di parametro contributivo minimale comune, idoneo a realizzare le finalità del sistema previdenziale ed a garantire una sostanziale parità dei datori di lavoro nel finanziamento del sistema stesso”.
Quanto all’eccezione sollevata dalla parte opponente secondo cui incomberebbe su INPS l’onere di dimostrare la maggiore rappresentatività delle OO:SS. stipulanti il contratto collettivo cui parametrare il contributo dovuto, essa non è in linea con i principi espressi dalla Suprema Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 19639 del 2015, ha chiarito come spetti all’azienda (e non all’INPS) che chiede l’applicazione di uno sgravio contributivo dimostrare il CCNL di cui chiede l’applicazione sia stato stipulato da associazioni sindacali che godono di maggiore rappresentatività: “Diversamente da quanto affermato dall'attuale ricorrente, è jus receptum che, ai sensi dell'art. 2697 c.c., grava sull'impresa, che - in deroga all'ordinario obbligo contributivo - invoca il diritto al riconoscimento di benefici (come gli sgravi etc.), la prova dell'inesistenza dei fatti negativi e il relativo onere può essere soddisfatto con la dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario ovvero mediante presunzioni da cui possa desumersi il fatto negativo (vedi: Cass. 16 aprile 2015, n. 7781; Cass. 16 dicembre 2003, n. 19262; Cass. 7 luglio 2004, n. 12530; Cass. 27 luglio 2007, n. 16351; Cass. 26 ottobre 2010, n. 21898; Cass. 22 luglio 2014, n. 16639; Cass. 23 novembre 2004, n. 22064; Cass. 7 aprile 2008, n. 8988; Cass. 9 giugno 2008, n. 15162; Cass. 10 novembre 2010, n. 22872).Pertanto, doveva essere P. ad offrire la prova della maggiore rappresentatività rispetto ai sindacati confederali - ai fini pubblicistici che qui rilevano - dei sindacati che stipularono il CCNL il 18 agosto 2000, invocato dalla ditta stessa per la determinazione della retribuzione da assumere come parametro per la commisurazione dei contributi previdenziali.3.2.- Mentre, nella specie, non solo non risulta che tale prova sia stata data, ma la Corte salentina, erroneamente, ha affermato che avrebbe dovuto esse l'INPS a dare la dimostrazione della maggiore rappresentatività dei sindacati che stipularono il CCNL ritenuto applicabile, con ciò discostandosi dal suindicato orientamento della giurisprudenza di questa Corte.”.
In ogni caso, come ancora sottolineato correttamente dalla difesa dell’Inps, è palese e notorio come il CCNL terziario applicato da INPS, in quanto stipulato dalle organizzazioni confederali CGIL CISL e UIL, debba intendersi quale contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a la cui retribuzione deve essere presa quale parametro per il calcolo della contribuzione previdenziale (come, peraltro, documentato dalla nota del Ministero del Lavoro del 3.10.2012 di aggiornamento dati numerici relativi alla rappresentatività delle OO.SS. stipulanti, ai fini dell’art. 1 legge 389/199 e dell'’art. 7 comma 4 del d.l. 248/2007).
In merito all’eccezione d’illegittimità costituzionale sollevata in riferimento al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost in quanto lavoratori che ricevono diversi livelli retributivi debbono versare un’analoga quota di contributi parametrata al c.d. contratto leader, si ritiene che la stessa non sia fondata. Come riconosciuto dalla stessa difesa di parte opponente, infatti, la questione non involge l’adeguatezza della retribuzione in quanto quest’ultima risulta comunque conforme al parametro di cui all’art. 36 Cost essendo pari al livello tabellare stabilito dai contratti stipulati da OO.SS. della categoria. Se così è, non risultando violato il parametro di cui all’art. 36 Cost., la maggiore afflittività del carico contributivo per lavoratori che applichino contratti collettivi che prevedano imponibili contributivi minori rispetto al c.d. contratto leader non discende da irragionevoli diversificazioni stabilite dal Legislatore il quale, al contrario, ha uniformato il carico contributivo e, quindi, anche il beneficio previdenziale atteso, tra tutti i lavoratori della categoria, ma dalla libera scelta in sede di contrattazione da parte delle OO.SS. e dei lavoratori in sede di contrattazione individuale.
In sede discussione, poi, la difesa dell’azienda ha molto insistito sul fatto che il contratto collettivo siglato da Cisal potrebbe essere utilizzato quale parametro per la determinazione del minimale contributivo in quanto la Cisal, pur essendo meno rappresentativa di CIGL CISL e UIL, sarebbe nondimeno da annoverare tra le OO.SS. comparativamente più rappresentative di cui al comma 25 dell’art. 2 della l. n. 549/95. Si tratta di deduzione che non può essere condivisa. Come sottolineato dalla Suprema Corte con la pronuncia sopra richiamata, la logica dell’intervento del Legislatore in materia di minimale contributivo è quella di “garantire una sostanziale parità dei datori di lavoro nel finanziamento del sistema [previdenziale] stesso”. In tale prospettiva, sia alla luce del tenore letterale che in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 1 del d.l. n. 338/1989 e del comma 25 dell’art. 22 della l. n. 549/95, in caso di pluralità di contratti collettivi nell’ambito di un settore, deve essere individuato un unico parametro minimo contributivo che coincide con la retribuzione stabilita dall’unico CCNL siglato dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative, (tra tutte le OO.SS. trattanti del settore). D’altronde, solo tale interpretazione garantisce un’univoca applicazione scevra di discrezionalità in ordine alla determinazione dei criteri per stabilire la rappresentatività aziendale in quanto, sulla base dei dati relativi alle adesioni sindacali, sarà sempre possibile individuare, all’interno di ciascun settore, quali siano le OO.SS. comparativamente più rappresentative tra quelle che abbiano sottoscritto accordi collettivi applicati nel settore. Laddove, d’altronde, il Legislatore avesse inteso individuare il minimale contributivo con riferimento ad una pluralità eventuale di contratti collettivi avrebbe dovuto anche stabilire la soglia minima di rappresentatività per rendere la norma concretamente applicabile. Inoltre, alla luce dell’art. 1 del d.l. n. 338/1989, risulta evidente l’intento del Legislatore di garantire il versamento di un importo contributivo minimo, facendo espressamente salva la possibilità di versamento di somme maggiori laddove la contrattazione applicata in azienda fissi livelli retributivi e, quindi, imponibili contributivi maggiori. Tale clausola di salvaguardia, ossia l’applicazione del contratto aziendale ove recante la previsione di una retribuzione maggiore rispetto al contratto c.d. leader, sarebbe poco logica e di difficile applicazione laddove si ammettesse la possibilità di individuare una pluralità di contratti collettivi per la determinazione di diversi importi della contribuzione minima. Tanto in quanto il contratto concretamente applicato dall’azienda potrebbe prevedere un imponibile contributivo maggiore rispetto al contratto collettivo siglato da una parte delle OO.SS. (qualificabili, secondo incerti e non predeterminati criteri, come comparativamente più rappresentative) e, tuttavia, inferiore rispetto all’imponibile che discendesse dal contratto collettivo siglato da altre OO.SS. (che fossero analogamente qualificabili, secondo incerti e non predeterminati criteri, come comparativamente più rappresentative).
Al riguardo, in senso contrario rispetto agli argomenti spesi dalla difesa di parte opponente per sostenere l’illegittimità dell’avviso di addebito vanno richiamate, in quanto, condivise le deduzioni svolte dall’Inps nella propria memoria di costituzione.
Con riferimento al merito dell’addebito, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19284 del 2017 ha evidenziato che: “L'importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all'importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (cosiddetto minimale contributivo), secondo il riferimento ad essi fatto - con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale - dall'art. 1 del d.l. n. 338 del 1989, convertito dalla l. n. 389 del 1989, senza le limitazioni derivanti dall'applicazione dei criteri di cui all'art. 36 Cost. (cosiddetto minimo retributivo costituzionale), che sono rilevanti solo quando a detti contratti si ricorre - con conseguente influenza sul distinto rapporto di lavoro - ai fini della determinazione della giusta retribuzione; né è configurabile la violazione dell'art. 39 Cost., alla stregua dei principi espressi con la sentenza della Corte costituzionale n. 342 del 1992, per via dell'assunzione di efficacia "erga omnes" dei contratti collettivi nazionali, essendo l'estensione limitata - secondo la previsione della legge - alla parte economica dei contratti soltanto in funzione di parametro contributivo minimale comune, idoneo a realizzare le finalità del sistema previdenziale ed a garantire una sostanziale parità dei datori di lavoro nel finanziamento del sistema stesso”.
Quanto all’eccezione sollevata dalla parte opponente secondo cui incomberebbe su INPS l’onere di dimostrare la maggiore rappresentatività delle OO:SS. stipulanti il contratto collettivo cui parametrare il contributo dovuto, essa non è in linea con i principi espressi dalla Suprema Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 19639 del 2015, ha chiarito come spetti all’azienda (e non all’INPS) che chiede l’applicazione di uno sgravio contributivo dimostrare il CCNL di cui chiede l’applicazione sia stato stipulato da associazioni sindacali che godono di maggiore rappresentatività: “Diversamente da quanto affermato dall'attuale ricorrente, è jus receptum che, ai sensi dell'art. 2697 c.c., grava sull'impresa, che - in deroga all'ordinario obbligo contributivo - invoca il diritto al riconoscimento di benefici (come gli sgravi etc.), la prova dell'inesistenza dei fatti negativi e il relativo onere può essere soddisfatto con la dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario ovvero mediante presunzioni da cui possa desumersi il fatto negativo (vedi: Cass. 16 aprile 2015, n. 7781; Cass. 16 dicembre 2003, n. 19262; Cass. 7 luglio 2004, n. 12530; Cass. 27 luglio 2007, n. 16351; Cass. 26 ottobre 2010, n. 21898; Cass. 22 luglio 2014, n. 16639; Cass. 23 novembre 2004, n. 22064; Cass. 7 aprile 2008, n. 8988; Cass. 9 giugno 2008, n. 15162; Cass. 10 novembre 2010, n. 22872).Pertanto, doveva essere P. ad offrire la prova della maggiore rappresentatività rispetto ai sindacati confederali - ai fini pubblicistici che qui rilevano - dei sindacati che stipularono il CCNL il 18 agosto 2000, invocato dalla ditta stessa per la determinazione della retribuzione da assumere come parametro per la commisurazione dei contributi previdenziali.3.2.- Mentre, nella specie, non solo non risulta che tale prova sia stata data, ma la Corte salentina, erroneamente, ha affermato che avrebbe dovuto esse l'INPS a dare la dimostrazione della maggiore rappresentatività dei sindacati che stipularono il CCNL ritenuto applicabile, con ciò discostandosi dal suindicato orientamento della giurisprudenza di questa Corte.”.
In ogni caso, come ancora sottolineato correttamente dalla difesa dell’Inps, è palese e notorio come il CCNL terziario applicato da INPS, in quanto stipulato dalle organizzazioni confederali CGIL CISL e UIL, debba intendersi quale contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a la cui retribuzione deve essere presa quale parametro per il calcolo della contribuzione previdenziale (come, peraltro, documentato dalla nota del Ministero del Lavoro del 3.10.2012 di aggiornamento dati numerici relativi alla rappresentatività delle OO.SS. stipulanti, ai fini dell’art. 1 legge 389/199 e dell'’art. 7 comma 4 del d.l. 248/2007).
In merito all’eccezione d’illegittimità costituzionale sollevata in riferimento al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost in quanto lavoratori che ricevono diversi livelli retributivi debbono versare un’analoga quota di contributi parametrata al c.d. contratto leader, si ritiene che la stessa non sia fondata. Come riconosciuto dalla stessa difesa di parte opponente, infatti, la questione non involge l’adeguatezza della retribuzione in quanto quest’ultima risulta comunque conforme al parametro di cui all’art. 36 Cost essendo pari al livello tabellare stabilito dai contratti stipulati da OO.SS. della categoria. Se così è, non risultando violato il parametro di cui all’art. 36 Cost., la maggiore afflittività del carico contributivo per lavoratori che applichino contratti collettivi che prevedano imponibili contributivi minori rispetto al c.d. contratto leader non discende da irragionevoli diversificazioni stabilite dal Legislatore il quale, al contrario, ha uniformato il carico contributivo e, quindi, anche il beneficio previdenziale atteso, tra tutti i lavoratori della categoria, ma dalla libera scelta in sede di contrattazione da parte delle OO.SS. e dei lavoratori in sede di contrattazione individuale.
In sede discussione, poi, la difesa dell’azienda ha molto insistito sul fatto che il contratto collettivo siglato da Cisal potrebbe essere utilizzato quale parametro per la determinazione del minimale contributivo in quanto la Cisal, pur essendo meno rappresentativa di CIGL CISL e UIL, sarebbe nondimeno da annoverare tra le OO.SS. comparativamente più rappresentative di cui al comma 25 dell’art. 2 della l. n. 549/95. Si tratta di deduzione che non può essere condivisa. Come sottolineato dalla Suprema Corte con la pronuncia sopra richiamata, la logica dell’intervento del Legislatore in materia di minimale contributivo è quella di “garantire una sostanziale parità dei datori di lavoro nel finanziamento del sistema [previdenziale] stesso”. In tale prospettiva, sia alla luce del tenore letterale che in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 1 del d.l. n. 338/1989 e del comma 25 dell’art. 22 della l. n. 549/95, in caso di pluralità di contratti collettivi nell’ambito di un settore, deve essere individuato un unico parametro minimo contributivo che coincide con la retribuzione stabilita dall’unico CCNL siglato dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative, (tra tutte le OO.SS. trattanti del settore). D’altronde, solo tale interpretazione garantisce un’univoca applicazione scevra di discrezionalità in ordine alla determinazione dei criteri per stabilire la rappresentatività aziendale in quanto, sulla base dei dati relativi alle adesioni sindacali, sarà sempre possibile individuare, all’interno di ciascun settore, quali siano le OO.SS. comparativamente più rappresentative tra quelle che abbiano sottoscritto accordi collettivi applicati nel settore. Laddove, d’altronde, il Legislatore avesse inteso individuare il minimale contributivo con riferimento ad una pluralità eventuale di contratti collettivi avrebbe dovuto anche stabilire la soglia minima di rappresentatività per rendere la norma concretamente applicabile. Inoltre, alla luce dell’art. 1 del d.l. n. 338/1989, risulta evidente l’intento del Legislatore di garantire il versamento di un importo contributivo minimo, facendo espressamente salva la possibilità di versamento di somme maggiori laddove la contrattazione applicata in azienda fissi livelli retributivi e, quindi, imponibili contributivi maggiori. Tale clausola di salvaguardia, ossia l’applicazione del contratto aziendale ove recante la previsione di una retribuzione maggiore rispetto al contratto c.d. leader, sarebbe poco logica e di difficile applicazione laddove si ammettesse la possibilità di individuare una pluralità di contratti collettivi per la determinazione di diversi importi della contribuzione minima. Tanto in quanto il contratto concretamente applicato dall’azienda potrebbe prevedere un imponibile contributivo maggiore rispetto al contratto collettivo siglato da una parte delle OO.SS. (qualificabili, secondo incerti e non predeterminati criteri, come comparativamente più rappresentative) e, tuttavia, inferiore rispetto all’imponibile che discendesse dal contratto collettivo siglato da altre OO.SS. (che fossero analogamente qualificabili, secondo incerti e non predeterminati criteri, come comparativamente più rappresentative).