REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Stefano CICIRETTI Presidente
Dott. ATTILIO CELENTANO consigliere
DOTT. STEFANO MONACI consigliere
DOTT. GIOVANNI MAMMONE consigliere
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA FORENSE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo studio dell'avvocato LUCIANI MASSIMO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
XXXX, elettivamente domiciliata in ROMA VIA G. PISANELLI 2, presso lo studio dell'avvocato LEOPARDI PAOLO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato MANFREDO LAVIZZARI,giusta delega in atti;
- controricorrente
avverso la sentenza n. 656/04 della Corte d'Appello di MILANO, depositata il 07/09/04 R.G.N. 946/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/11/07 dal Consigliere Dott. Pasquale PICONE;
udito l'Avvocato LUCIANI;
udito l'Avvocato FUSELLI per delega LEOPARDI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Marcello MATERA che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
Ritenuto in fatto
I. La sentenza di cui si domanda la cassazione rigetta l'appello della Cassa nazionale di previdenza forense e conferma la decisione del Tribunale di Milano n. 1837 in data 11 giugno 2003, di condanna della Cassa a pagare a XXXXXX, avvocato, la somma di Euro 9.251,43 a titolo di differenza con quanto liquidatole a titolo di indennità di maternità.
2. La Cassa aveva fatto applicazione del criterio di liquidazione, adottato con delibera del consiglio di amministrazione n. 132 del 2 marzo 2002, secondo cui dal calcolo del reddito utile per la determinazione dell'indennità di maternità restava esclusa la quota eccedente la parte assoggettata alla contribuzione del 10% e utile ai fini pensionistici.
3. La Corte di Milano ha ritenuto il criterio di liquidazione adottato non conforme al disposto dell'art. 70 della L. n. 151/2001, non essendo applicabili ratione temporis le modificazioni introdotte dalla L. n. 289/2003, norma che, considerando utile l'intero reddito professionale percepito e denunciato ai fini fiscali nel secondo anno precedente la domanda dell'indennità, non contemplava alcun tetto, secondo una scelta discrezionale del legislatore non sindacabile sotto il profilo della legittimità costituzionale.
4. Il ricorso della Cassa è articolato in due motivi; resiste con controricorsoXXXXXXX. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
Considerato in diritto
I. Con il primo motivo di ricorso, denunziando violazione di norme di diritto e vizio della motivazione, si sostiene la necessità di una lettura ragionevole della normativa, rispettosa del principio di parità di trattamento e della funzione assistenziale dell'indennità, tale da condurre a ritenere utile solo il reddito a valenza previdenziale, con esclusione di quella parte superiore al reddito assoggettato a contribuzione.
2. Con il secondo motivo, in via subordinata, si sostiene la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 70 della L. n. 151/2001, tenuto anche conto che il successivo intervento legislativo dei 2003 era stato espressamente motivato nei lavori preparatori con il richiamo della finalità di porre riparo alle irrazionalità delle disposizioni legislative precedenti, specie sotto il profilo della mancanza di un tetto per l'indennità.
3. La Corte, esaminate unitariamente le questioni poste dai due motivi di ricorso, le giudica prive di fondamento.
4. Secondo l'originaria formulazione dell'articolo 1 della legge 11 dicembre 1990, n. 379 (poi riprodotto inalterato nell'articolo 70 d.lgs 26 marzo 2001, n. 151), pacificamente applicabile alla fattispecie ratione temporis, l'indennità di maternità alle professioniste si commisura "all'80 per cento di cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda".
S. La giurisprudenza di legittimità si era orientata nel senso di ammettere che, ai fini della quantificazione dell'indennità, rilevassero non solo i redditi derivanti dallo svolgimento di attività professionale in senso proprio, ma anche quelli provenienti dallo svolgimento dell'attività professionale in forma di impresa. In tal senso si erano espresse le sentenze 19130/03, 15222/00, 5221/99, 612/99, 11817/98). Era stata respinta, quindi, la diversa lettura proposta dagli enti previdenziali, secondo i quali l'unica tipologia reddituale da prendere in considerazione avrebbe dovuto essere individuata nei soli redditi prodotti dall'effettivo esercizio dell'attività professionale, in mancanza del quale si sarebbe dovuto ricorrere al criterio suppletivo del massimale previsto dal comma 3 dell'articolo 1, parametrato sui minimali di retribuzione ai fini contributivi. Asostegno della tesi, gli enti previdenziali evidenziavano come, accogliendo l'interpretazione contraria, l'assimilazione di redditi ulteriori ed eterogenei ai fini della quantificazione delle prestazioni avrebbe potuto determinare vistose sperequazioni trai trattamenti di maternità liquidati sulla base dei soli redditi di lavoro autonomo e quelli, sovente assai più consistenti, calcolati sui redditi delle attività svolte in forma d'impresa; sperequazioni peraltro accentuate: a) dalla commisurazione fissa e standardizzata - non proporzionale, quindi, al reddito - del contributo annuo a carico di ciascun iscritto alle casse di previdenza e assistenza dei liberi professionisti; b) dall'assenza di un limite legale massimo dell'indennità.
6. Il richiamato orientamento della Corte di cassazione, peraltro, è risultato contraddetto dall'ultima pronuncia sul tema specifico sopra richiamato, che ha ritenuto doversi prendere in esame, ai fini dell'indennità di maternità spettante alle libere professioniste, a norma dell'art. 1, comma 2, della legge n. 379 del 1990, recepito, senza modifiche, dall'art. 70, comma 2, del d.lgs. n. 151 del 2001, soltanto il reddito professionale denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo percepito nel secondo anno precedente a quello della domanda (Cals. 10 giugno 2005, n. 12260).
7. La specifica questione sopra richiamata non viene direttamente in rilievo nella fattispecie controversa, ma contribuisce a fornire il quadro complessivo dei problemi che la norma aveva originato, problemi ai quali il legislatore ha poi ritenuto di dare soluzione.
La legge 15 ottobre 2003, n. 289 -Modifiche all'articolo 70 del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, in materia di indennità di maternità per le libere professioniste - ha modificato l'assetto precedente, ponendo rimedio alle disfunzioni denunziate dagli istituti previdenziali: è stato definito un tetto massimo dell'indennità (cinque volte l'importo minimo: nuovo comma 3-bis articolo 70); è stato individuato un criterio temporale più stabile perl'individii,97ione del reddito di riferimento, che è quello del secondo anno precedente il momento dell'evento e non più il momento di presentazione della domanda (che può avvenire entro un arco di tempo complessivo di nove mesi); infine, la nuova formulazione dell'articolo 70, comma 2, prevede che l'indennità debba essere calcolata sul solo reddito professionale "percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo".
8. E' proprio il contenuto delle soluzioni innovative del 2003 a smentire la tesi della ricorrente secondo cui si sarebbe in presenza di un "elemento chiarificatore" del testo originario, che giustificherebbe l'interpretazione accolta con la delibera del consiglio di amministrazione anche a prescindere dall'indagine sulla natura di norma interpretativa o meramente innovativa della legge n. 289/03.
E' certo che l'ultima legge non presenta nessuno dei connotati normalmente attribuiti alle norme di interpretazione autentica, mentre l'idea che essa possa influire anche sulle situazioni manifestatesi prima della sua entrata in vigore, non solo coma con la ritenuta necessità della modificazione legislativa, ma si pone in insa~ contesto con la molteplicità delle possibili soluzioni, affidate alla discrezionalità del legislatore, e adottate dalla legge sia in relazione al "tetto", sia al reddito di riferimento.
Ed infatti la nuova disposizione ha provveduto a fissare un tetto massimo all'importo dell'indennità, mentre la Cassa pretenderebbe, nella vigenza della normativa precedente, di rendere utile al computo il solo reddito assoggettato a contributo, un criterio, quindi, del tutto diverso.
9. In ordine alla questione di legittimità costituzionale per violazione degli art. 3 e 38 Cost., questa Corte ne ha già ritenuto la manifesta infondatezza, sul rilievo che il legislatore aveva assegnato all'indennità lo scopo precipuo di favorire la conservazione del normale tenore di vita della lavoratrice autonoma anche durante il periodo di maternità, richiamando le considerazione svolte dalla sentenzacostituzionale n. 3 del 1998 e osservando altresì come la legge aveva riconosciuto al Ministro del tesoro (così denominato all'epoca) il potere di disporre una variazione della contribuzione al fine di evitare situazioni di squilibrio tra contributi ricevuti e prestazioni erogate (cfr. il combinato disposto degli articoli 78 e 83 d-lgs. n. 151/01).
E' fin troppo evidente come non possa dubitarsi della legittimità della scelta legislativa di limitare l'intervento di razionalizzazione alle fattispecie perfezionatesi dopo l'entrata in vigore della nuova norma, considerate le cautele e i limiti che il legislatore incontra nel dettare disposizioni con efficacia retroattiva (vedi, tra le più recenti, C. cosi. n. 274 del 2006).
10. Il ricorso va, quindi, rigettato in base al seguente principio di diritto: "Mentre ai fini del calcolo della pensione le casse di previdenza categoriali fanno riferimento ad un tetto di reddito professionale pensionabile, per il calcolo dell'indennità di maternità, ai sensi dell'art. 70 d.lgs. n. 151 del 2001, nel testo anteriore alle modificazioni introdotte dalla legge n. 289 del 2003, occorre fare riferimento all'intero reddito professionale percepito e denunciato ai fini fiscali, senza alcun massimale".
11. La Cassa va condannata al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione nella misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio di cassazione, liquidate le prime in E 26,00 e i secondi in Euro 2000,00 (duemila/00).
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 20 novembre 2007