L'obbligo di iscrizione all'Enpav - commento a Cass Civ 15232 2000

  

Con la sentenza n. 15232/2000 la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato la problematica concernente l’individuazione dei presupposti per l’insorgenza dell’obbligo di iscrizione all’Enpav e delle conseguenti obbligazioni contributive.
Nella fattispecie oggetto della cognizione della Corte Suprema, si trattava di una veterinaria che, iscritta d’ufficio all’ente di previdenza e richiesta di pagare, con cartella esattoriale, i conseguenti contributi, aveva proposto opposizione sostenendo che, stante la mancata produzione di redditi professionali, non sarebbero ricorsi i presupposti per una legittima iscrizione d’ufficio all’Enpav.
La Suprema Corte, ripercorsa la normativa evolutasi nel tempo, è giunta alla conclusione secondo cui l’iscrizione all’Albo determinerebbe, di per sé, l’insorgenza dell’obbligo di iscrizione all’ente di previdenza, in caso di mancate produzioni reddituali, in quanto manterrebbe la propria vigenza, in tale ipotesi, la l. n. 1357/1962 che, per l’appunto, esplicitamente collegava l’iscrizione all’Ente alla sola iscrizione all’Albo.
Più in particolare, ha precisato la Suprema Corte, l’art. 24 della L.n. 136/91 avrebbe inteso disciplinare l’obbligo o la facoltatività dell’iscrizione soltanto nei confronti dei veterinari percettori di redditi professionali permanendo l’obbligo di iscrizione dei professionisti privi di reddito ancorato alla sola iscrizione all’Albo ai sensi della L. n. 1357/1962 che, sotto tale profilo, non sarebbe mai stata abrogata.
Le conclusioni cui giunge la Suprema Corte con la pronuncia in commento appaiono non del tutto condivisibili sia sotto il profilo dell’interpretazione complessiva della legge di riforma n. 136/91, sia sotto il profilo dell’esame comparato con altri sistemi previdenziali dei liberi professionisti contenenti norme positive analoghe, sia, in ultimo, alla luce di principi di Giurisprudenza di legittimità elaborati proprio in riferimento a norme dall’analogo tenore testuale rispetto al comma 1 dell’art. 24 della L. n. 136/91.
Sotto il profilo della complessiva interpretazione della L. n. 136/91, l’art. 24 sembra, infatti, voler disciplinare l’iscrizione tout court e non già l’iscrizione dei soli professionisti percettori di reddito.
Depone, in particolare, per tale interpretazione, il comma 5 dell’art. 24 che esplicita specifiche casistiche al ricorrere delle quali l’assenza di redditi non determina la perdita dell’anzianità d’iscrizione.
Tale specifica previsione di una clausola di salvaguardia dell’anzianità d’iscrizione in caso di omesse produzioni reddituali legate a specifiche casistiche tutelate, non si spiegherebbe laddove, così come ipotizza la Suprema Corte di Cassazione, la mera iscrizione all’Albo, in difetto di produzioni reddituali, fosse sufficiente ad integrare l’obbligo di iscrizione all’ente di previdenza.
A ben guardare il Legislatore del 1991, con l’art. 24, ha introdotto una regolamentazione complessiva dell’iscrizione all’ente di previdenza, differenziando le due ipotesi della facoltatività dell’iscrizione e dell’obbligatorietà della medesima, cosicché le diverse norme presenti al riguardo nella L. n. 1357/1962 dovrebbero ritenersi abrogate per incompatibilità per effetto della disposizione di cui all’art. 38 della L. n. 136/91.
Sotto il profilo dell’esame comparato, anche alla luce della relativa evoluzione giurisprudenziale, appare utile richiamare la norma di cui all’art. 2 della L. n. 100/63 regolante, prima delle rispettive leggi di riforma, la previdenza dei dottori commercialisti e dei ragionieri collegiati.
Il richiamato art. 2 prevedeva, infatti, analogamente al1° comma dell’art. 24 della L. n. 136/91 in commento, che l’iscrizione all’ente di previdenza fosse obbligatoria in caso di iscrizione all’albo e di esercizio della libera professione.
La Suprema Corte, con diverse pronunce, ha interpretato la norma richiamata nel senso che, ai fini dell’iscrizione all’ente di previdenza, non fosse necessaria la produzione di determinati limiti reddituali o la continuità dell’attività professionale; attività che, infatti, non doveva essere connotata da una particolare intensità.
La Giurisprudenza, tuttavia, e questo è il punto, aveva sottolineato come fosse pur sempre necessario che l’attività professionale fosse effettiva e non soltanto potenziale e destinata a produrre un utile anche se minimo.
In conclusione, pur necessariamente prendendo atto della pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, sembrano sussistere margini per una diversa interpretazione dell’art. 24 della L. n. 136/91 a mente della quale, in caso d’insussistenza dell’esercizio professionale comprovata dall’omessa produzione di redditi, pur in presenza dell’iscrizione all’Albo, non sussista l’obbligo di iscriversi e di contribuire all’Enpav se non con il contributo di solidarietà di cui al 4° comma dell’art. 11.

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