Il risarcimento del danno da esposizione all'amianto, profili problematici e soluzioni giurisprudenziali - il problema della prescrizione, l'individuazione del responsabile, il nesso di causalità
Approfondimento a cura di
avvocato del Foro di La Spezia
La nocività dell'amianto per la salute dell'uomo è conosciuta da tempo, la sua potenzialità cancerogena è stata confermata da studi scientifici che risalgono agli anni 50' - 60', ma il divieto del suo utilizzo risale solo al 1992 anno in cui viene emanata la legge n. 257, che al comma 2 art. 1 delle disposizioni generali stabilisce:"Sono vietate l'estrazione, l'importazione, l'esportazione, la commercializzazione e la produzione di amianto, di prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto", ma come sempre, quando ci sono troppi interessi economici in gioco, ci sono sempre delle eccezioni alla regola, infatti il comma menzionato prosegue:"Previa autorizzazione espressa d'intesa fra i Ministri dell'ambiente, dell'industria, del commercio e dell'artigianato e della sanità, è ammessa la deroga ai divieti di cui al presente articolo per una quantità massima di 800 chilogrammi e non oltre il 31 ottobre 2000, per amianto sotto forma di treccia o di materiale per guarnizioni non sostituibile con prodotti equivalenti disponibili. Le imprese interessate presentano istanza al Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato che dispone, con proprio provvedimento, la ripartizione pro-quota delle quantità sopra indicate, nonché determina le modalità operative conformandosi alle indicazioni della commissione di cui all'articolo 4."
Quindi dal 1992 al 2000 ci sono stati lavoratori esposti a questa sostanza e ad oggi gli operatori coinvolti nella'attività di smaltimento e bonifica sono altamente a rischio di sviluppare il mesotelioma pleurico, la forma cancerogena da esposizione all'amianto più subdola e difficile da diagnosticare a causa del suo lungo periodo di latenza, che può arrivare fino a 40 anni prima di manifestarsi in tutta la sua violenza.
Preme inoltre osservare che, nonostante l'utilizzo dell'amianto sia stato letteralmente bandito in Italia dal 1992, non si possono escludere responsabilità attuali. E' infatti compito delle amministrazioni pubbliche controllare il corretto smaltimento di questo materiale, così come è dovere dei titolari delle imprese di smaltimento adottare le misure idonee per evitare di esporre a malattie asbesto correlate i propri dipendenti.
Se pensiamo poi che l'amianto esiste dagli inizi del 1900, le prime azioni giudiziarie per far valere sua dannosità si hanno attorno agli anni 50, ma il primo vero maxi processo penale presso il Tribunale di Torino contro i grandi produttori risale al 2009, non è difficile comprendere i motivi per i quali il problema amianto sia stato "dormiente" dapprima nelle aule parlamentari che dovevano emanare leggi specifiche in materia e conseguentemente nelle aule dei Tribunali.
• Il problema della prescrizione
Ma il problema che ci interessa trattare ai fini del nostro studio riguarda l'aspetto civilistico della prescrizione.
Se si considera che le malattie provocate dall'amianto insorgono a distanza di oltre 15 anni rispetto alla prima esposizione, con una latenza media di 30-40 anni, è evidente la difficoltà di un'eventuale azione risarcitoria.
Con la sentenza a Sezioni Unite n. 581, 11 gennaio 2008 la Suprema Corte ha precisato: "...il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947 c.c, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche".
Le Sezioni Unite hanno quindi ritenuto che ancorare l'individuazione del dìes a quo solo ed esclusivamente al parametro dell'«esteriorizzazione del danno» può rivelarsi limitante perchè impedisce una piena comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività (incolpevole) della vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti.
L'approccio all'individuazione del dies a quo si deve concentrare sulla "rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l'instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest'ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto."
Concludendo, il dies a quo coincide con il momento in cui la vittima abbia l'obiettiva percezione soggettiva della sua malattia in quanto esteriorizzata e diagnosticata, e sia altresì in grado di ricollegare la sua patologia ad un evento specifico, anche se risalente nel tempo, in grado di far sorgere il suo legittimo diritto al risarcimento, puntualizzando che la conoscibilità da parte del danneggiato dell'antigiuridicità della condotta che fa sorgere il suo diritto al risarcimento è da ricondurre alla possibilità tecnica e scientifica di avere piena conoscenza e coscienza della propria malattia, ricorrendo al parametro della ordinaria diligenza.
• L'individuazione della responsabilità
La carenza normativa specifica che imponesse al datore di lavoro l'adozione di misure idonee ad impedire l'esposizione prolungata e pericolosa del lavoratore all'amianto ha creato non pochi problemi interpretativi nell'individuazione e determinazione della responsabilità civile, problema a cui ha posto fine la Cassazione Civile., Sezione lavoro, con la sentenza n. 15078 del 26 giugno 2009, che in linea con recenti pronunce (n. 2491 del 1.02.2008 e n. 644 del 14.01.2005), ha sancito un principio fondamentale che sgombra il campo ad equivoci: "la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione norme di diritto oggettivo esistenti o di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore sul luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico."
Non è necessaria pertanto una normativa specifica di riferimento che imponga al datore di lavoro di adottare le misure dalla stessa indicate, in quanto sussiste un obbligo generale sancito dall'art. 2087 c.c. che gli impone di conoscere gli aspetti, noti dal punto di vista scientifico in quel periodo storico, delle lavorazioni alle quali è esposto il proprio dipendente e che si presentano pericolose per la sua salute e la sua sicurezza.
Tornando all'esame della Cassazione 15078/09, i Giudici di legittimità hanno rilevato che in sede di merito era stato accertato che il lavoratore "era stato esposto in maniera continuativa alla inalazione di fibre di amianto, senza che il datore di lavoro avesse al riguardo adottato alcuna cautela per evitarlo" e che all'epoca dei fatti, circa trenta anni prima dal manifestarsi del mesotelioma e precisamente nel 1999 era ampiamente conosciuta la pericolosità dell'amianto, anche se erano ritenute sufficienti le cautele previste dal D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21 i cui primi due commi recitano :
"1. Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro.
2. Le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione nella atmosfera."
I giudici di merito hanno ritenuto inoltre di nessun rilievo che, pur essendo ben nota la pericolosità dell'amianto, a questo non fosse stato collegato in maniera sicura il rischio di insorgenza del mesotelioma. A tal proposito, la Corte territoriale che si era pronunciata prima del ricorso in Cassazione aveva correttamente ricordato che la norma menzionata del D.P.R. n. 303 del 1956, costituiva una norma generale diretta a prevenire il rischio di malattie respiratorie collegate all'inalazione di polveri anche di amianto, tra le quali, anche se all'epoca non ancora nota, la malattia del mesotelioma, ed ha richiamato un principio già affermato dalla Cass. Pen. 14 gennaio 2003 n. 988, secondo cui "in tema di responsabilità colposa per violazione di norme prevenzionali, la circostanza che la condotta antidoverosa, per effetto di nuove conoscenze tecniche e scientifiche, risulti nel momento del giudizio produttiva di un evento lesivo, non conosciuto quale sua possibile implicazione nel momento in cui è stata tenuta, non esclude la sussistenza del nesso causale e dell'elemento soggettivo del reato sotto il profilo della prevedibilità, quando l'evento verificatosi offenda lo stesso bene alla cui tutela avrebbe dovuto indirizzarsi il comportamento richiesto dalla norma, e risulti che detto comportamento avrebbe evitato anche la lesione in concreto attuata. […]" in appello era stato altresì accertato, avvalendosi del parere tecnico di un consulente d'ufficio, che l'adozione da parte della ricorrente delle più elementari tra le misure indicate nel D.P.R. n. 303 del 1956 e comunque tra quelle dettate dall'esperienza e dalle conoscenze tecniche del tempo, "(e quindi in primo luogo mascherine e aspiratori) avrebbe con ogni probabilità ridotto considerevolmente l'esposizione e avrebbe potuto evitare l'insorgere della malattia o comunque incidere significativamente prolungando il tempo di latenza.
La Cassazione 15078 ha poi affermato in tema di ripartizione dell'onere probatorio: "In tale contesto di responsabilità contrattuale e sul piano della ripartizione dell'onere della prova in un giudizio promosso dal lavoratore per ottenere il risarcimento del danno derivante dall'inadempimento agli obblighi di cui all'art. 2087 c.c., devesi inoltre ribadire che ai sensi dell'art. 1218 c.c., ... grava sul lavoratore l'onere di dedurre e provare l'esistenza della obbligazione lavorativa, del danno e del nesso di causalità tra quest'ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e pertanto di avere adempiuto interamente all'obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misura per evitare il danno."
• Il nesso di causa
Tornando alla questione del nesso di causa la Cassazione con sentenza n. 975 del 16 gennaio 2009 ha ribadito che la regola probatoria civile si basa sul criterio probabilistico e non su quello della certezza "oltre ogni ragionevole dubbio" richiesta in sede penale.
Il principio affermato in questa sentenza apre quindi la strada a richieste risarcitorie anche da parte di quei cittadini che, abitando nelle vicinanze delle grandi imprese di estrazione o lavorazione di asbesto, abbiano vissuto con la preoccupazione costante di poter contrarre malattie polmonari gravi.
Avv. Annamaria Villafrate
Collegamenti di interesse:
1) D.P.R. n. 303 del 1956 - Norme generali per l'igiene del lavoro :
http://www.normattiva.it/uri-res/N2Lsurn:nir:presidente.repubblica:decreto:1956;303
2) Legge 27 marzo 1992, n. 257 - Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto. (pubblicata sul Suppl.Ord. alla Gazzetta Ufficiale n. 87 del 13 aprile 1992) http://www.salute.gov.it/resources/static/primopiano/amianto/normativa/Legge_27_marzo_1992.pdf
3) Testo integrale sentenza del 13 febbraio 2012 Tribunale ordinario di Torino - sezione prima penale
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http://www.linkiesta.it/sites/default/files/uploads2/sentenza-eternit-motivazioni.pdf