Decisamente innovativa è la pronuncia, invece, con riferimento al concorso di cause naturali. Assolutamente prevalente era in giurisprudenza la tesi secondo cui il concorso di altre cause naturali non valesse a temperare la responsabilità civile del medico nel senso che dette concause avrebbero potuto soltanto escludere tale responsabilità non potendo incidere sul quantum percentuale della stessa. La Cassazione, discostandosi da tale consolidato orientamento, ha ritenuto che, nella specie, sussistendo il possibile concorso tra il caso fortuito delle patologie pregresse ed il fatto colposo del medico, il giudice del rinvio dovesse addebitare al medico solo una quota di responsabilità in ordine all'evento dannoso espungendo invece quella quota riferibile, anche ex art. 1226 cc, alla patologia preesistente.
Cassazione Civile Sez. III del 16 gennaio 2009 n. 975
Qualora la produzione di un evento dannoso, quale la morte di un paziente, sia riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla situazione patologica del soggetto deceduto (la quale non sia legata all'anzidetta condotta da un nesso di dipendenza causale), il giudice deve procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause, onde attribuire all'autore della condotta dannosa la parte di responsabilità correlativa, così da lasciare a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produzione ha concorso a determinare il suo stato personale.
In tema di responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del «contatto») e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) e del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari, restando a carico dell'obbligato - sia esso il sanitario o la struttura - la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile; tuttavia, l'insuccesso o il parziale successo di un intervento di routine, o, comunque, con alte probabilità di esito favorevole, implica di per sé la prova dell'anzidetto nesso di causalità, giacché tale nesso, in ambito civilistico, consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del «più probabile che non».
Poiché l'art. 3, comma 2, l. reg. Toscana 21 ottobre 1997 n. 75, in attuazione del principio posto dall'art. 2, comma 14, l. statale 28 dicembre 1995 n. 549, secondo cui le Regioni attribuiscono ai direttori generali delle aziende sanitarie locali le funzioni di commissario liquidatore delle cessate unità sanitarie locali, precisa che detti direttori generali si avvalgono, per tali funzioni, delle strutture operative delle Asl, deve ritenersi che gli avvocati interni di queste aziende possano esercitare lo ius postulandi anche per conto delle gestioni liquidatorie delle Usl, nel quadro di un fenomeno - non sconosciuto al diritto amministrativo - di utilizzazione da parte di un ente dell'ufficio di un altro ente; del resto, per effetto di tale fenomeno, anche gli affari del primo ente possono ritenersi quali affari del secondo, ai fini del rispetto del disposto dell'art. 3, ultimo comma, lett. b, r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, secondo cui gli avvocati degli uffici legali istituiti presso enti pubblici, ed iscritti all'albo speciale, possono svolgere le loro funzioni solo per le cause ed affari dell'ente di appartenenza.