La Corte Costituzionale ridefinisce le forme di tutela per licenziamenti per GMO

 

L’art. 18, comma 7 della l. n. 300 del 1970, inserito dall'articolo 1, comma 42, lettera b), della Legge 28 giugno 2012, n. 92, che ha sostituito gli originali commi da 1 a 6 con gli attuali commi da 1 a 10 stabiliva quanto segue in ordine al regime di tutela applicabile in caso di illegittimità dei licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo.

Il giudice… Puo' altresi' applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennita' tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni...”.

In sostanza emerge chiaramente la volontà del Legislatore di rendere la tutela reintegratoria a fronte di licenziamenti intimati per motivi oggettivi del tutto residuale consentendo (e non imponendo) la stessa solo in caso di manifesta insussistenza del fatto addotto a suo fondamento.

Su tale tessuto normativo, tuttavia, è intervenuta la Corte Costituzionale ridisegnando in pratica l’intera disciplina e capovolgendo essenzialmente il regime di tutela cosicchè, allo stato, deve ritenersi residuale il caso in cui, accertata l’insussistenza del motivo addotto a fondamento del licenziamento, il giudice possa somministrare la tutela indennitaria di cui al 5° comma dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970 anziché quella reale di cui al comma 4°.

La Corte Costituzionale, con sentenza 1° aprile 2021, n. 59 (in Gazz. Uff. 7 aprile 2021, n. 14), ha, infatti, dichiarato l'illegittimità costituzionale del secondo periodo del comma 7°, come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «puo' altresi' applicare» - invece che «applica altresi'» - la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.

Successivamente, la Corte Costituzionale, con sentenza 19 maggio 2022, n. 125 (in Gazz. Uff. 25 maggio 2022, n. 21), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma  come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), limitatamente alla parola «manifesta».

In sostanza, dunque, a seguito di tale ultimo intervento della Corte, ai fini della tutela dell'articolo 18, nel testo modificato dalla riforma Fornero, il giudice non è tenuto ad accertare che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento economico sia "manifesta" (settimo comma, secondo periodo).

La Corte costituzionale con la sentenza n. 125 n. 2022 (redattrice la vice Presidente Silvana Sciarra), è dunque intervenuta su un altro tassello della legge Fornero (n. 92 del 2012), in materia di disciplina dei licenziamenti.

L’incostituzionalità ha colpito la sola parola “manifesta”, che precede l’espressione “insussistenza del fatto” posta a base del licenziamento per ragioni economiche, produttive e organizzative.

Al fatto – spiega la sentenza – si deve “ricondurre ciò che attiene all’effettività e alla genuinità della scelta imprenditoriale”.

Su questi aspetti il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità che non può “sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità” (sentenza n. 59 del 2021).

La Corte ha affermato che il requisito della manifesta insussistenza è, anzitutto, indeterminato e si presta, proprio per questo, a incertezze applicative, con conseguenti disparità di trattamento. Inoltre, la sussistenza di un fatto è nozione difficile da graduare, perché evoca “un’alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi”. Il criterio della manifesta insussistenza – ha precisato inoltre la Corte – “risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento”.

Nelle controversie in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo si è in presenza di un quadro probatorio articolato: oltre ad accertare la sussistenza o insussistenza di un fatto – che è già di per sé un’operazione complessa – le parti, e con esse il giudice, si devono impegnare “nell'ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza”.

Vi è dunque un “aggravio irragionevole e sproporzionato” sull’andamento del processo: all’indeterminatezza del requisito si affianca una irragionevole complicazione sul fronte processuale.

La Corte ha dunque individuato uno squilibrio tra i fini che il legislatore si era prefisso – consistenti in una più equa distribuzione delle tutele, attraverso decisioni più rapide e più facilmente prevedibili – e i mezzi adottati per raggiungerli.

Sentenza n. 125 del 2022 Corte Costituzionale

1.– Con ordinanza del 6 maggio 2021, iscritta al n. 97 del registro ordinanze 2021, il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), per violazione degli artt. 1, 3, 4, 24 e 35 della Costituzione.

 

Le censure si incentrano sulla disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che richiede il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto ai fini della reintegrazione.

 

1.1.– Il rimettente espone di dover decidere sull’opposizione del datore di lavoro contro l’ordinanza che ha reintegrato un lavoratore, licenziato «tre volte nel giro di alcuni mesi, una delle quali per giustificato motivo oggettivo, le altre due per giusta causa».

 

L’opposizione, instaurata ai sensi dell’art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012, concerne il solo licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo.

 

A sostegno della rilevanza delle questioni, il giudice a quo argomenta che il dipendente è stato assunto nel 2001 da un’impresa che occupa «circa 50 dipendenti in media» e che le parti non contestano l’applicabilità della disposizione censurata, contraddistinta da un tenore testuale inequivocabile. Oggetto di contestazione, per contro, è il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto.

 

1.2.– Il giudice a quo ravvisa il contrasto con molteplici parametri costituzionali.

 

1.2.1.– Vi sarebbe, in primo luogo, «una ingiustificata, irrazionale ed illegittima differenziazione» tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, da un lato, e il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, dall’altro lato. Solo nella prima fattispecie sarebbe richiesta – ai fini della reintegrazione del lavoratore – una insussistenza manifesta del fatto e tale trattamento differenziato sarebbe sprovvisto di una plausibile ragion d’essere.

 

1.2.2.– Il vulnus al principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) si coglierebbe anche nel raffronto con la disciplina dei licenziamenti collettivi, che – nel caso di violazione dei criteri di scelta – concede la reintegrazione, invece preclusa per i licenziamenti individuali determinati da ragioni economiche.

 

1.2.3.– Il criterio individuato dal legislatore sarebbe, inoltre, «intrinsecamente illogico» e dunque lesivo dell’art. 3, primo comma, Cost., in quanto incerto nella sua applicazione concreta e carente di un «preciso e concreto metro di giudizio», idoneo a definire il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto.

 

1.2.4.– L’irragionevolezza della disposizione censurata si rivelerebbe, inoltre, nell’inversione dell’onere della prova in essa sancita. Il lavoratore, pur estraneo alle relative circostanze di fatto, dovrebbe dimostrarne la manifesta insussistenza.

 

1.2.5.– In violazione degli artt. 1, 3, primo comma, 4 e 35 Cost., il legislatore avrebbe attuato «un illegittimo bilanciamento tra i valori in gioco delle due parti del rapporto» e avrebbe adottato una scelta penalizzante per il lavoratore.

 

1.2.6.– L’inversione dell’onere della prova a svantaggio del lavoratore entrerebbe in conflitto, inoltre, con il principio di eguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3, secondo comma, Cost.

 

1.2.7.– Il rimettente prospetta, infine, il contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 24 Cost. La disposizione censurata comprimerebbe in maniera irragionevole e sproporzionata il diritto del lavoratore di agire in giudizio.

 

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Ravenna.

 

2.1.– Nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, il legislatore potrebbe scegliere tempi e modi della tutela del diritto del lavoratore di non essere arbitrariamente licenziato.

 

La legge n. 92 del 2012 perseguirebbe l’obiettivo di «introdurre un articolato sistema di rimedi, funzionale alla creazione di un mercato del lavoro “inclusivo e dinamico”» e, in questa prospettiva, si giustificherebbe la previsione del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento economico.

 

2.2.– Il trattamento differenziato tra il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo rispecchierebbe la «diversità sostanziale delle due situazioni», l’una legata a un comportamento del lavoratore, l’altra a scelte organizzative del datore di lavoro. Né il datore di lavoro potrebbe attribuire alla ragione giustificatrice del licenziamento una qualificazione che prescinda dalla realtà effettuale e così attrarre entro l’area del giustificato motivo oggettivo ipotesi che appartengono al licenziamento disciplinare.

 

La previsione del requisito della manifesta insussistenza del fatto bilancerebbe «l’interesse del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro con il principio di libertà dell’iniziativa economica privata».

 

2.3.– Non potrebbe assurgere a utile termine di raffronto la disciplina dei licenziamenti collettivi, contraddistinta da «ulteriori ed evidenti esigenze di tutela della collettività, di natura tanto sociale quanto economica», che reclamano la più energica tutela reale.

 

2.4.– Non sarebbero fondate neppure le censure che fanno leva sull’indeterminatezza del criterio della manifesta insussistenza del fatto.

 

Tale presupposto, inteso sul piano probatorio come evidente assenza della giustificazione del recesso, risponderebbe all’esigenza di escludere la rilevanza di «interessi contrapposti da bilanciare con quello del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro». Peraltro, il lavoratore beneficerebbe di una «tutela indennitaria piena», che garantirebbe «un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subìto a causa del licenziamento illegittimo».

 

Per altro verso, il requisito della manifesta insussistenza presenterebbe un significato sostanziale, in quanto denoterebbe la chiara pretestuosità del licenziamento, nozione quest’ultima da ritenersi autonoma rispetto a quella del licenziamento discriminatorio o ritorsivo.

 

Sarebbe dunque «fisiologico» il margine di discrezionalità attribuito al giudice, che potrebbe valorizzare «puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento», nell’esercizio del potere di valutazione delle circostanze del caso concreto che questa stessa Corte ha riconosciuto come imprescindibile.

 

2.5.– Il differenziato sistema di rimedi presupporrebbe, pertanto, non la mera facilità dell’accertamento, ma la diversa gravità dei vizi e costituirebbe il frutto di un prudente contemperamento degli interessi contrapposti.

 

 

Considerato in diritto

 

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 97 del 2021), il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), «nella parte in cui prevede che, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra occorra un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della “manifesta” insussistenza del fatto stesso», posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

 

Le censure, formulate in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 24 e 35 della Costituzione, si incentrano sul criterio della manifesta insussistenza del fatto, declinata come «evidenza piena» e «peculiare difformità» rispetto al paradigma legale.

 

1.1.– Il rimettente prospetta, in primo luogo, il contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., in ragione dell’arbitraria disparità di trattamento tra il regime applicabile al licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, da un lato, e la disciplina del licenziamento determinato da un giustificato motivo oggettivo, dall’altro lato.

 

Se, nella prima fattispecie, la reintegrazione è subordinata al ricorrere dell’insussistenza del fatto, nel licenziamento che trae origine da ragioni economiche è richiesta – senza alcun «fondamento logico-giuridico» – una insussistenza manifesta, che spetta al lavoratore dimostrare, con inversione dell’onere della prova.

 

1.2.– Il contrasto con il principio di eguaglianza si apprezzerebbe anche sotto un distinto profilo, che attiene alla diversa regolamentazione prevista per i «licenziamenti individuali per motivo economico» e per i licenziamenti collettivi. Solo in quest’ultima fattispecie si potrebbe disporre la reintegrazione nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta, laddove – nei licenziamenti intimati per giustificato motivo oggettivo – il requisito restrittivo in esame precluderebbe il ripristino del rapporto di lavoro e condurrebbe a una tutela meramente indennitaria.

 

1.3.– Ad avviso del rimettente, sarebbe poi «illogica e irragionevole» l’applicazione in chiave sostanziale di un criterio di matrice processuale, «totalmente impalpabile» e foriero di «risultati bizzarri e imponderabili», in un contenzioso che presuppone «una ampia istruttoria, spesso molto complessa e sicuramente non “facile”».

 

In contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., la disposizione censurata rimetterebbe alla «scelta totalmente discrezionale» del giudice la determinazione delle tutele spettanti al lavoratore ingiustamente licenziato, senza fornire alcun «criterio serio ed omogeneo, uguale per tutti».

 

1.4.– La disposizione è censurata in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., anche sotto un diverso profilo. Con «una regola illogica e irrazionale», essa imporrebbe al lavoratore la dimostrazione di «un fatto negativo […] e dai contorni indefiniti», che rientrerebbe «nella sfera di disponibilità anche probatoria del datore di lavoro».

 

1.5.– Il rimettente denuncia, inoltre, la violazione degli artt. 1, 3, primo comma, 4 e 35 Cost. Nel subordinare la reintegrazione alla manifesta insussistenza del fatto, che nulla aggiungerebbe «al disvalore della fattispecie estintiva» e non varrebbe a tutelare la «libertà di iniziativa economica privata», il legislatore avrebbe delineato un assetto «marcatamente ed ingiustificatamente sbilanciato in favore del datore di lavoro e, di contro, ingiustificatamente penalizzante per il lavoratore».

 

1.6.– Sarebbe violato, inoltre, l’art. 3, secondo comma, Cost.

 

La disciplina censurata, nell’imporre al lavoratore l’onere della prova di «un fatto dai contorni incerti», ne limiterebbe la libertà e l’eguaglianza, in contraddizione con l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

 

1.7.– Il rimettente denuncia, infine, la violazione degli artt. 3, primo comma, e 24 Cost.

 

La disposizione censurata, nell’introdurre «un meccanismo privo di criteri applicativi oggettivi» e nell’onerare il lavoratore della prova di fatti estranei alla sua sfera di conoscenza, pregiudicherebbe e renderebbe comunque «eccessivamente difficoltoso l’esercizio» del suo diritto di agire in giudizio. Il lavoratore non potrebbe prevedere «le proprie chance di successo» e, dunque, non potrebbe chiedere a ragion veduta di tutelare in sede giurisdizionale i propri diritti.

 

2.– Le questioni di legittimità costituzionale sono sorte nel giudizio di opposizione promosso dal datore di lavoro contro l’ordinanza che, all’esito della fase sommaria, ha annullato il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo e ha disposto la reintegrazione del lavoratore.

 

L’odierno rimettente, nel medesimo giudizio, ha dapprima sollevato la questione di legittimità costituzionale della disciplina che contemplava la natura meramente facoltativa della reintegrazione nel licenziamento illegittimo intimato per giustificato motivo oggettivo (ordinanza iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2020).

 

Con la sentenza n. 59 del 2021, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, dello statuto dei lavoratori, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, «può altresì applicare», invece che «applica altresì», la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto comma.

 

Il rimettente sospetta ora di illegittimità costituzionale il requisito della manifesta insussistenza del fatto.

 

2.1.– Nel giudizio a cognizione piena, introdotto dall’opposizione di cui all’art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012, il Tribunale rimettente è chiamato a valutare i presupposti della reintegrazione e, in particolare, la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

 

In punto di rilevanza, il giudice a quo argomenta che il dibattito processuale si dispiega proprio su tale profilo, dedotto dal lavoratore e contestato dall’impresa. Per definire la controversia, è dunque necessario applicare la disposizione censurata, che delinea gli elementi costitutivi della reintegrazione, ora obbligatoria in virtù della pronuncia di questa Corte. Tali elementi devono essere vagliati nel giudizio principale, in cui si dibatte sul diritto del lavoratore di trattenere l’indennità che ha percepito in sostituzione della reintegrazione.

 

La caducazione del requisito in esame incide sul percorso argomentativo che conduce alla decisione, in quanto rende superflua ogni indagine sul carattere manifesto dell’insussistenza accertata. Da questo punto di vista, trova conferma la rilevanza delle questioni proposte.

 

2.2.– Il Tribunale di Ravenna procede alla disamina del diritto vivente, che configura l’insussistenza manifesta del fatto come assenza – evidente e facilmente verificabile – dei presupposti che legittimano il recesso e come elemento rivelatore del carattere pretestuoso del licenziamento intimato. A fronte dell’univoco dato testuale e di un indirizzo oramai consolidato della giurisprudenza di legittimità, il giudice a quo esclude la praticabilità di una interpretazione adeguatrice.

 

Il rimettente prende le mosse dalle enunciazioni di principio della pronuncia di questa Corte, per dimostrare l’incompatibilità con la Costituzione di un requisito che, nel precedente giudizio, non formava oggetto di censura (sentenza n. 59 del 2021, punto 5 del Considerato in diritto).

 

Anche in ordine alla non manifesta infondatezza, rispetto a ciascuno dei parametri invocati, l’ordinanza di rimessione offre una motivazione sufficiente, che consente a questa Corte di scrutinare il merito delle questioni proposte.

 

2.3.– Sul merito si diffonde anche la difesa dello Stato, che ha replicato in maniera esaustiva agli argomenti del rimettente, senza eccepire alcun profilo preliminare di inammissibilità.

 

3.– Il fulcro delle censure risiede nell’attribuzione al giudice di «insondabili e insindacabili poteri discrezionali», sprovvisti di ogni «riferimento concreto e specifico» e diversi dalla «discrezionalità che si muove all’interno di confini ragionevolmente delimitati dal legislatore, che è al contrario il valore aggiunto della giurisdizione».

 

Ad avviso del rimettente, il requisito censurato darebbe àdito a molteplici «incertezze applicative».

 

4.– La questione formulata in relazione all’art. 3 Cost. è fondata.

 

5.– La disposizione censurata è stata introdotta dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, che ha inteso adeguare la disciplina dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento», allo scopo di ridistribuire «in modo più equo le tutele dell’impiego».

 

L’odierna questione di legittimità costituzionale verte sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative.

 

A tale riguardo, lo statuto dei lavoratori appresta, a seconda delle dimensioni dell’impresa, un diversificato apparato di tutele.

 

5.1.– Quando sia manifesta l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, opera la tutela reintegratoria, oggi non più facoltativa in seguito all’intervento correttivo di questa Corte (sentenza n. 59 del 2021). All’ordine di reintegrazione si affianca la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria, parametrata all’ultima retribuzione globale di fatto e comunque non superiore all’importo di dodici mensilità, per il periodo che intercorre dal licenziamento alla effettiva reintegrazione.

 

Da tale somma occorre detrarre quanto il lavoratore, nel periodo di estromissione, abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative (aliunde perceptum) e quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (aliunde percipiendum). Il datore di lavoro è poi obbligato a versare i contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione.

 

5.2.– Nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro sin dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

 

Nella determinazione dell’indennità si tiene conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti e «delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni». Se, nel corso del giudizio, il licenziamento risulti «determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari», come recita il settimo comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, troveranno applicazione «le relative tutele».

 

6.– Questa Corte è costante nell’affermare che il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati dagli artt. 4 e 35 Cost. e sulla speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.).

 

L’attuazione di tali principi è demandata alle valutazioni discrezionali del legislatore (fra le molte, sentenze n. 59 del 2021, n. 150 del 2020 e n. 194 del 2018), chiamato ad apprestare un equilibrato sistema di tutele.

 

Questa Corte ha tuttavia ribadito che il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento di cui dispone, è vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (sentenza n. 59 del 2021). La diversità dei rimedi previsti dalla legge deve sempre essere sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare l’adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso, nelle quali la reintegrazione non costituisce «l’unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali (sentenza n. 59 del 2021; così anche sentenza n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto).

 

Nell’attuazione dei principi sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost., essenziale è il compito del giudice, chiamato a ponderare la particolarità di ogni vicenda e a individuare di volta in volta la tutela più efficace, sulla base delle indispensabili indicazioni fornite dalla legge.

 

7.– La disciplina censurata si pone in contrasto con i principi richiamati.

 

8.– Nel peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012, la reintegrazione, sia per i licenziamenti disciplinari sia per quelli economici, si incardina sulla nozione di insussistenza del fatto, che chiama in causa l’aspetto qualificante dei presupposti di legittimità del licenziamento (sentenza n. 59 del 2021, punto 9 del Considerato in diritto).

 

È onere del datore di lavoro dimostrare tali presupposti, alla luce dell’art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), che completa e rafforza, sul versante processuale, la protezione del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi. In armonia con le indicazioni delineate da questa Corte (sentenza n. 45 del 1965, punto 4 del Considerato in diritto), la prospettiva sostanziale e quella processuale convergono nell’attuare le «doverose garanzie» che il dettato costituzionale prescrive, allo scopo di salvaguardare la dignità della persona del lavoratore ingiustamente licenziato per «notevole inadempimento degli obblighi contrattuali» o per «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (art. 3 della legge n. 604 del 1966).

 

Il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include tali ragioni e, in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore.

 

Al fatto si devono dunque ricondurre l’effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale. Su questi aspetti il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità, che non può «sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità» (sentenza n. 59 del 2021, punto 5 del Considerato in diritto).

 

La preclusione di un più penetrante sindacato di merito emerge, tra l’altro, dall’art. 30, comma 1, primo periodo, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), che oggi consente di impugnare per violazione di norme di diritto la sentenza che travalichi i limiti posti dalla legge alla valutazione del giudice (secondo periodo, aggiunto dall’art. 1, comma 43, della legge n. 92 del 2012).

 

Nell’ambito del licenziamento economico, il richiamo all’insussistenza del fatto vale a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, che investono il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso.

 

Rientrano nell’area della tutela indennitaria le ipotesi in cui il licenziamento è illegittimo per aspetti che, pur condizionando la legittimità del licenziamento, esulano dal fatto giuridicamente rilevante, inteso in senso stretto. In tale ambito si colloca il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 19 maggio 2021, n. 13643).

 

La previsione del carattere manifesto di una insussistenza del fatto, già delimitata e coerente con un sistema che preclude il sindacato delle scelte imprenditoriali, presenta i profili di irragionevolezza intrinseca già posti in risalto nella sentenza n. 59 del 2021, che ha preso in esame il carattere meramente facoltativo della reintegrazione.

 

9.– Il requisito del carattere manifesto, in quanto riferito all’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, è, anzitutto, indeterminato.

 

9.1.– Questa Corte ha evidenziato che è problematico, nella prassi, il discrimine tra l’evidenza conclamata del vizio e l’insussistenza pura e semplice del fatto (sentenza n. 59 del 2021, punto 10.1. del Considerato in diritto). Il criterio prescelto dal legislatore si presta, infatti, a incertezze applicative (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 luglio 2016, n. 14021) e può condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento.

 

Si rivela labile la definizione di un elemento di fattispecie, che richiede un apprezzamento imprevedibile e mutevole, senza alcuna indicazione utile a orientarne gli esiti. La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse è rimessa a una valutazione non ancorata a precisi punti di riferimento, tanto più necessari quando vi sono fondamentali esigenze di certezza, legate alle conseguenze che la scelta stessa determina.

 

Nel caso di specie, non viene in rilievo quella discrezionalità – richiamata anche dalla difesa dello Stato – che si sostanzia nel ponderato apprezzamento «delle particolarità del caso concreto, in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata» (sentenza n. 59 del 2021, punto 10.1. del Considerato in diritto).

 

Il ruolo cruciale di una discrezionalità indirizzata da parametri attendibili e coerenti è stato peraltro riconosciuto da questa Corte nella determinazione dell’indennità risarcitoria per i licenziamenti viziati dal punto di vista sostanziale (sentenza n. 194 del 2018) o formale (sentenza n. 150 del 2020).

 

9.2.– Il requisito della manifesta insussistenza demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico.

 

Non solo il riferimento alla manifesta insussistenza non racchiude alcun criterio idoneo a chiarirne il senso; esso entra anche in tensione con un assetto normativo che conferisce rilievo al fatto e si prefigge in tal modo di valorizzare elementi oggettivi, in una prospettiva di immediato e agevole riscontro.

 

La sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi.

 

9.3.– L’elemento distintivo dell’insussistenza manifesta neppure si connette razionalmente alla peculiarità delle diverse fattispecie di licenziamento, che questa Corte ha ribadito alla luce delle differenze che intercorrono tra i licenziamenti disciplinari, con la connessa violazione degli obblighi contrattuali, e i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, dovuti a scelte tecniche e organizzative (sentenza n. 59 del 2021, punto 9 del Considerato in diritto).

 

10.– L’irragionevolezza del criterio enucleato dal legislatore si coglie anche da un’altra angolazione.

 

10.1.– Il presupposto in esame non ha alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave, solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio.

 

Peraltro, nelle controversie che attengono a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, il quadro probatorio è spesso articolato, tanto da non essere compatibile con una verifica prima facie dell’insussistenza del fatto, che la legge richiede ai fini della reintegrazione.

 

10.2.– Il criterio della manifesta insussistenza, inoltre, risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento.

 

Dall’imprevedibile dialettica processuale e dalle variabili, che condizionano il diverso grado dell’approfondimento istruttorio necessario, derivano conseguenze di considerevole impatto sul versante sostanziale, tutte riconducibili al presupposto censurato, che prescinde dalla tipologia del vizio dell’atto espulsivo o dal ricorrere di altri razionali elementi distintivi.

 

10.3.– Infine, nel far leva su un requisito indeterminato e per di più svincolato dal disvalore dell’illecito, la disposizione censurata si riflette sul processo e ne complica taluni passaggi, con un aggravio irragionevole e sproporzionato. Oltre all’accertamento, non di rado complesso, della sussistenza o della insussistenza di un fatto, essa impegna le parti, e con esse il giudice, nell’ulteriore verifica della più o meno marcata graduazione dell’eventuale insussistenza.

 

A ben vedere, un sistema così congegnato vanifica l’obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni e finisce per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell’impiego (art. 1, comma 1, lettera c, della legge n. 92 del 2012), che ha in tali caratteristiche della tutela giurisdizionale il suo caposaldo.

 

L’irragionevolezza intrinseca della disciplina censurata risiede, pertanto, anche in uno squilibrio tra i fini enunciati e i mezzi in concreto prescelti.

 

11.– Si deve dichiarare, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge n. 92 del 2012, limitatamente alla parola «manifesta».

 

Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura illustrati dal rimettente.

 

 

Per Questi Motivi

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), come modificato dall’art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), limitatamente alla parola «manifesta».

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2022.

 

F.to:

 

Giuliano AMATO, Presidente

 

Silvana SCIARRA, Redattore

 

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

 

Depositata in Cancelleria il 19 maggio 2022.

 

Il Direttore della Cancelleria

 

F.to: Roberto MILANA

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