licenziamento risarcimento e decadenza, la questione dell'esperibilità dell'ordinaria azione di risarcimento del danno quando è spirato il termine per l'impugnativa del licenziamento
Con sentenza n. 5804 del 10 marzo 2010 (Rv. 612121) la Sezione Lavoro della Suprema Corte (Pres. Roselli, Rel. Di Nubila, P.M. Matera - ha enunciato il principio di diritto così massimato: <<Il lavoratore decaduto dall'impugnativa del licenziamento illegittimo può esperire l'azione risarcitoria generale, previa allegazione dei relativi presupposti, diversi da quelli previsti dalla normativa sui licenziamenti e tali da configurare l'atto di recesso come idoneo a determinare un danno risarcibile, ma non può ottenere, neppure per equivalente, il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute a causa del licenziamento, essendogli ciò precluso dalla maturata decadenza>>.
Nell'enunciare il riportato principio la S.C. ha precisato che, in relazione al quesito se il lavoratore decaduto dalla facoltà di impugnare il licenziamento, a causa del decorso del termine, possa tuttavia proporre un'azione di risarcimento del danno per illegittimità del medesimo, ad esempio per conseguire un equivalente delle retribuzioni perdute, la giurisprudenza di legittimità, dopo "qualche oscillazione al riguardo ... ha finito per orientarsi nel senso che è esperibile la "normale azione risarcitoria" soltanto per quegli effetti che non siano preclusi dalla citata decadenza. L'azione non sarà quindi esperibile per ottenere il risarcimento del danno da perdita del posto di lavoro o da mancata reintegra; e neppure per ottenere l'equivalente delle retribuzioni "medio tempore" perdute. In altri termini, con la normale azione risarcitoria non è possibile ottenere, neppure per equivalente, ciò che è precluso dalla decadenza in ordine all'impugnativa. La mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro, bensì preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno ai sensi della l. n.300 del 1970, art. 18. È esperibile la normale azione risarcitoria in base ai principi generali e previa allegazione dei presupposti. ... Quando l'unico profilo per il risarcimento del danno invocato è dato unicamente dall'illegittimità del recesso, la normale azione risarcitoria è preclusa".
Nel caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte, il lavoratore, pur decaduto dall'impugnativa, con l'azione risarcitoria proposta, chiedeva un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute a causa del licenziamento e, quindi, la S.C. ha affermato che l'intervenuta decadenza esplica i suoi effetti anche in relazione all'azione proposta.
Al riguardo, deve, peraltro, ricordarsi, l'arresto della Cassazione n. 18216 del 21 agosto 2006 (Rv. 591732) così massimata: <<La decadenza dall'impugnativa del licenziamento, individuale o collettivo, preclude l'accertamento giudiziale dell'illegittimità del recesso e la tutela risarcitoria di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto, l'inadempimento del lavoratore, del diritto al risarcimento del danno riconosciuto dall'art. 1218 cod. civ.>>.
I giudici di legittimità, nella sentenza appena indicata, hanno evidenziato che l'ordinamento prevede, per la risoluzione del rapporto di lavoro una disciplina particolare, i cui connotati di specialità e imperatività mal si conciliano con la libertà di scelta, per le parti, tra regime ordinario e regime speciale nelle aree in cui il licenziamento deve essere sorretto necessariamente da specifiche ragioni. Nel quadro di questo speciale regime - secondo la S.C. - il legislatore ha previsto un termine breve di decadenza per l'impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore a garanzia della certezza della situazione di fatto determinata dal recesso datoriale, ritenendo tale certezza un valore preminente rispetto a quello della legittimità del licenziamento, con la conseguenza che al lavoratore che non abbia tempestivamente impugnato il licenziamento è precluso il diritto di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del recesso e di conseguire il risarcimento dei danni nella misura prevista dalle leggi speciali (art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604; art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300). Nell'occasione è stato ulteriormente precisato che, se il lavoratore non assolve l'onere di impugnare tempestivamente il licenziamento, il giudice non può conoscere dell'illegittimità di quest'ultimo, neanche al fine di ricollegare al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune.
Sempre in tema, con la decisione della Sezione Lavoro del 12 ottobre 2006, n. 21833 (Rv. 542215) si è precisato che la "normale azione risarcitoria" da fatto illecito, secondo i principi generali, richiede, anzitutto, l'indicazione e l'allegazione del fatto ingiusto il quale si sia accompagnato al licenziamento ed a titolo esemplificativo cita il licenziamento ingiurioso, il licenziamento come atto finale di "mobbing", il licenziamento pubblicizzato al di fuori dell'azienda con la finalità di nuocere alla figura professionale del lavoratore.
Aderiscono sostanzialmente al medesimo orientamento anche la sentenze, sempre della Sezione Lavoro, n. 245 del 10 gennaio 2007 (Rv. 594523) e n. 5545 del 9 marzo 2007 (Rv. 595345). In particolare la prima delle sentenze appena richiamate, è stata massimata come segue: <<La mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro bensì preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento ai sensi dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970. Ne consegue che, nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia verificata la decadenza dall'impugnazione è concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali della responsabilità contrattuale o extracontrattuale, facendo valere i relativi presupposti, diversi da quelli previsti dalla normativa sui licenziamenti e tali da configurare l'atto di recesso come idoneo a determinare un danno risarcibile>>.
Si inseriscono nel più recente filone interpretativo anche Cass., Sez. L, 5 febbraio 2010, n. 2676, non massimata, che ribadisce, in motivazione, le medesime argomentazioni di Cass., Sez. L, del 21 agosto 2006, n. 18216 (Rv. 591732), nonché la sentenza, sempre della Sezione Lavoro della S.C., n. 5107 del 3 marzo 2010, (Rv. 612107), Pres. Roselli, Est. Curzio, così massimata: <<Al lavoratore che non abbia tempestivamente impugnato il licenziamento è precluso l'accertamento giudiziale dell'illegittimità del recesso e, conseguentemente, la tutela risarcitoria in base alle leggi speciali, ne' il giudice può conoscere dell'illegittimità del licenziamento per ricollegare al recesso illegittimo le conseguenze risarcitorie di diritto comune, in quanto l'ordinamento prevede, per la risoluzione del rapporto di lavoro, una disciplina speciale, con un termine breve di decadenza (sessanta giorni) all'evidente fine di dare certezza ai rapporti giuridici>>. Nella motivazione di tale sentenza si afferma, in particolare, che se il lavoratore non abbia impugnato nel termine di decadenza il licenziamento, "il giudice non può conoscere della illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare, di per sè, al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune. La decadenza, infatti, impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, nella misura in cui non consente di far accertare in sede giudiziale la illegittimità del licenziamento".
Cassazione civile sez. lav. 12/10/2006 n 21833
MOTIVI DELLA DECISIONE
3. Col primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 604 del 1966, artt. 2, 3, 6, 8, della L. n. 300 del 1970, art. 18, e artt. 1453 e 1455 c.c. e della sentenza n. 44/1996 della Corte Costituzionale: la Corte di Appello non ha tenuto conto che, ai fini della presente causa, è irrilevante la decadenza dalla facoltà di impugnare il licenziamento, perchè è stata esperita la normale azione risarcitoria.
4. Il motivo è infondato. "La mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro, bensì preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento a sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18. Ne consegue che, nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia verificata la decadenza dall'impugnazione, è concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali che governano questa azione, sempre che ne ricorrano (e siano dal lavoratore allegati) i relativi presupposti" (Cass. 2.3.1999 n. 1757). Dall'esame della motivazione della citata sentenza, si ricava che nella specie un lavoratore aveva azionato, nonostante la intervenuta decadenza, l'azione di reintegra ed aveva chiesto il risarcimento del danno. La sentenza sfavorevole al lavoratore è stata confermata, con la statuizione che non era possibile nè la reintegra nè il risarcimento del danno.
5. Nella specie, risulta che col ricorso in primo grado l'attrice ha azionato le differenze retributive di cui sopra, oltre a chiedere sei mensilità di retribuzione data l'illegittimità del licenziamento.
Essa pertanto non ha esperito, come apprezzato dai giudici di merito, la normale azione risarcitoria in base ai principi generali, ma per l'appunto una azione la quale, previo accertamento dell'illegittimità del recesso, doveva mettere capo, in difetto dei presupposti per la tutela reale, al risarcimento del danno nella misura di sei mensilità della retribuzione. L'accoglimento della domanda presuppone l'accertamento della mancanza di giusta causa o di giustificato motivo del recesso; ma tale accertamento è precluso dalla decadenza dall'impugnazione. La L. n. 604 del 1966, art. 8 prevede il risarcimento del danno da licenziamento ingiustificato nella misura massima di sei mensilità di retribuzione; l'art. 6 della citata L. n. 604 del 1966 prevede che il licenziamento debba essere impugnato entro sessanta giorni dalla sua comunicazione, a pena di decadenza. Dal combinato disposto delle due norme si ricava che, ove si verifichi decadenza, non è possibile impugnare il licenziamento, e quindi ottenere l'accertamento della sua illegittimità, il quale costituisce a sua volta il presupposto per il risarcimento del danno.
6. La "normale azione risarcitoria" da fatto illecito, secondo i principi generali, richiede anzitutto l'indicazione e l'allegazione del fatto ingiusto il quale si sia accompagnato al licenziamento: a titolo di esempio, può citarsi il licenziamento ingiurioso, il licenziamento come atto finale di un "mobbing", il licenziamento pubblicizzato al di fuori dell'azienda con la finalità di nuocere alla figura professionale del lavoratore. In altri termini, al licenziamento intrinsecamente ingiustificato deve accompagnarsi un "fatto ingiusto" secondo i principi generali, che nella specie non è allegato.
7. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 112, 133, 416 e 421 c.p.c.: la Corte di Appello, in virtù del principio di ricerca della verità, avrebbe dovuto acquisire di ufficio il C.C.N.L. del settore, la cui applicabilità era pacifica.
8. Il motivo è infondato. Il potere-dovere del giudice del lavoro di disporre prove di ufficio non vale a colmare le lacune probatorie in cui sia incorsa la parte. Nella specie, il giudice di primo grado ha ritenuto incomprensibile la rivendicazione di differenze retributive, affermate apoditticamente nel ricorso e non assistite da alcuna motivazione e allegazione. E' stata inoltre rilevata la mancata produzione del C.C.N.L.. Il giudice di appello ha dato atto della produzione di un conteggio sindacale in secondo grado, ma ha ritenuto ugualmente di non poter procedere ad alcuna verifica stante la mancata produzione del contratto. Trattasi di onere che incombe alla parte attrice, onde il mancato esercizio della potestà di acquisizione non è censurabile in Cassazione. Si rileva inoltre che parte ricorrente non indica in quale atto del processo di merito abbia chiesto, sia pure tardivamente, l'acquisizione del ripetuto C.C.N.L..
9. Col terzo motivo del ricorso, la ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5: la Corte di Appello nulla ha detto circa la necessità di ammettere una consulenza tecnica di ufficio a carattere contabile.
10. Il motivo è infondato. La ricorrente non indica in quale atto del processo ha chiesto la consulenza tecnica di ufficio. Ove si intenda che la Corte di Appello avrebbe dovuto disporla autonomamente, valgono le considerazioni di cui al motivo che precede.
11. Col quarto motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 91, 92 e 336 c.p.c., sotto il profilo della compensazione delle spese di appello e non anche di quelle di primo grado.
12. Il motivo è infondato. La condanna alle spese rappresenta una facoltà discrezionale del giudice di merito. Nella specie, il giudice di primo grado ha posto le spese a carico della G. in applicazione del principio della soccombenza. Il giudice di appello ha compensato le spese limitatamente al secondo grado: tale statuizione non è soggetta a censura, essendosi risolta in un temperamento del criterio della soccombenza a favore dell'attrice.
13. Il ricorso, per i suesposti motivi, deve essere rigettato. Non essendosi la controparte costituita, non vi è luogo a pronunciare sulle spese.
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