L’evento materiale e giuridico nella struttura del reato omissivo proprio ed improprio
Approfondimento a cura di
avvocato del Foro di Trani
Nel nostro ordinamento giuridico, manca una disposizione normativa che preveda cosa debba intendersi per evento nell’ambito del diritto penale. La mancata previsione ha indotto la dottrina a interrogarsi sul punto, prendendo le mosse dalle norme del codice penale che dell’evento non danno certamente una definizione ma lo collocano all’interno della struttura del reato.
L’approccio allo studio della struttura del reato conosce una summa divisio. L’approccio unifattoriale, secondo il quale non è possibile scindere il reato ma lo studio di esso comprende l’analisi complessiva dell’endiade ‘reato – autore’, è stato proposto in Italia da Aldo Moro e, storicamente, è stato alla base dell’intuizionismo di matrice germanica il quale, con la norma contenuta nel par. 9 del codice penale tedesco del 1935, prevedeva che il giudice avrebbe dovuto sottoporre a sanzione penale ogni comportamento che fosse contrario al Volkspirit, di cui il giudice medesimo era interprete, in un’ottica di legalità sostanziale comune alla coeva esperienza dittatoriale sovietica e ripresa da analoghe e successive forme di governo illiberali, preoccupate di reprimere penalmente gli oppositori al regime.
In chiave più spiccatamente liberale, si muove l’approccio multifattoriale che conosce, al suo interno, diverse scuole di pensiero. Storicamente riconducibile all’Antolisei, la teoria bipartita propone la suddivisione del reato in due elementi, quello oggettivo e quello soggettivo; nel primo, sono compresi la condotta, tanto attiva quanto omissiva, l’evento – da questa teoria inteso in senso naturalistico – ed il nesso causale, che lega i due momenti; l‘elemento soggettivo si preoccupa di analizzare l’apporto dell’autore del fatto di reato in termini di dolo, colpa o di preterintenzione. La teoria tripartita aggiunge agli elementi predetti l’antigiuridicità del fatto: mentre per l’Antolisei, l’antigiuridicità del fatto rappresenta ‘l’in sé‘del reato e quindi è inutile esplicitarla, secondo la dottrina che propugna questa tesi (Fiandaca, Musco, Mantovani) l’antigiuridicità va declinata come assenza di cause di giustificazione. Infatti, la presenza, reale o presunta, di queste circostanze escludono la tipicità del fatto in termini di reato e, in base all’art. 59 c.p., la ricorrenza di tali circostanze è valutata a favore dell’agente, anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti. Un cenno merita la teoria quadripartita, in base alla quale l’analisi del reato è incompleta se non si tiene conto della punibilità del fatto: secondo tale prospettazione, la punibilità potrebbe essere esclusa per la presenza di un’immunità in capo al soggetto agente o perché è intervenuta la prescrizione per il reato per cui si procede.
Dalla lettura dell’art. 40 comma 1 c.p., emerge che il reato è configurato se esiste un evento qualificabile come dannoso o pericoloso. La stessa norma mette in relazione causale il fatto e la condotta, attiva od omissiva, dell’agente, escludendone la punibilità se difetta la predetta consequenzialità causale fra i due momenti. L’etimologia indica che il reato ‘e-venit’ dalla condotta, cioè viene fuori dalla condotta, attiva od omissiva, tenuta dal soggetto agente, ferma restando naturalmente la suitas ex art. 42 comma 1 c.p. e l’apporto psicologico dell’agente ex art. 43 c.p. L’evento può essere inteso in senso naturalistico: in omaggio alla dottrina tedesca, il tat deve necessariamente implicare una modificazione della realtà esterna. Il reato sarà configurabile solo quando l’effetto della condotta del soggetto agente è apprezzabile dal punto di vista obiettivo-naturalistico. Una simile impostazione è limitata perché, aderendo a tale tesi, si dovrebbe escludere la punibilità di fatti tipizzati dalla norma penale che, tuttavia, non determinano una modificazione nel mondo naturale. Appare preferibile aderire alla concezione dell’evento in senso giuridico: in tal modo, vengono puniti i fatti tipici capaci di offendere il bene giuridico tutelato dalla norma penale, a prescindere dalla modificazione intervenuta nella realtà esterna, quale conseguenza dell’azione o dell’omissione del soggetto agente.
In quest’ottica, è stata elaborata la categoria dei reati di evento nei quali il legislatore interviene selezionando il bene giuridico da preservare e vietando ogni tipo di condotta astrattamente idonea ad offendere il bene giuridico selezionato. Così, nell’art. 575 c.p. il legislatore utilizza il verbo ‘cagionare’ e, al contempo, vieta ogni azione e/o omissione astrattamente idonea a ledere il bene giuridico ‘vita’. Dalla categoria dei reati di eventosi distingue la categoria dei reati di pura condotta nei quali è punita l’offesa al bene giuridico tutelato posta in essere attraverso un comportamento: esempio è l’art. 385 c.p. che prevede e punisce l’evasione, la quale non può essere analizzata come un reato di evento in senso naturalistico perché non implica alcuna modificazione nel mondo esterno. Il disvalore della condotta sta nell’offesa all’autorità delle decisioni giudiziarie.
Il problema della natura dell’evento e del suo accertamento si ripropone all’interno dei reati omissivi. Tale forma di condotta è stata storicamente utilizzata in chiave repressiva da parte di regime statali autoritari: così è accaduto negli Stati preunitari per soffocare sul nascere i moti risorgimentali, allo stesso modo è successo con i regimi dittatoriali europei degli anni ’30 del secolo appena trascorso. Con la fine del secondo conflitto mondiale e con la promulgazione della Costituzione repubblicana, l’utilizzo della categoria dell’omissione ha permesso allo Stato italiano di promuovere e incentivare gli obiettivi di solidarietà tipici del Welfare State, specialmente con la produzione legislativa di settore. Ontologicamente, le fattispecie omissive pongono un problema di valutazione naturalistica: la dottrina più risalente ha individuato ‘l’in sé’ dell’omissione nel nihil facere, cioè nel non tenere nessuna condotta. L’obiezione mossa a tale assunto è stata quella per cui non è possibile non tenere alcuna condotta, dato che, secondo dottrine vicine al neopositivismo, anche mentre si dorme si fa qualcosa: per l’effetto, tale dottrina ha proposto di individuare ‘l’in sé’ dell’omissione nell’aliud facere. A tale dottrina si è obiettato che all’ordinamento giuridico non importa un aliud facere ma il non facere quod debetur: secondo la dottrina dominante, l’omissione è soggetta a sanzione penale quando il soggetto agente, che sia tenuto ad avere un contegno rilevante per l’ordinamento giuridico, non adempie ad esso.
Tuttavia, occorre un chiarimento circa le fonti dell’obbligo di facere e in punto di tipizzazione dell’illecito omissivo. Partendo da questo secondo punto, occorre premettere che i reati omissivi si distinguono in propri e impropri. La distinzione riposa sulla tecnica legislativa di tipizzazione utilizzata: i reati omissivi propri sono previsti e puniti dal legislatore e sono racchiusi in alcune norme di parte speciale. I dubbi sull’ontologia dell’evento nei reati omissivi propri vengono risolti dal legislatore nel senso di punire il soggetto agente per non avere tenuto la condotta imposta dalla norma: questi è punito per aver contrastato l’obbligo di fare ciò che la norma comanda e non certamente perché un dato evento si è verificato.
Infatti, la norma di cui all’art. 593 c.p. punisce l’omesso avviso all’autorità qualora il soggetto agente trovi un soggetto incapace d provvedere a se stesso come meglio indicato nella norma medesima; l’ultimo comma della predetta norma prevede solo un aumento di pena in ragione del doppio se alla condotta omissiva segue, in base ad un nesso di derivazione, la lesione personale o la morte del soggetto. L’evento ulteriore è posto a carico dell’agente solo in termini di circostanza aggravante. I reati omissivi impropri, detti anche commissivi mediante omissione, risultano dal combinato disposto dell’art. 40 cpv. c.p. e dalla norma di parte speciale coinvolta, di volta in volta. Il capoverso dell’art. 40 c.p. è detto anche clausola impeditiva o equivalente perché il legislatore pone sullo stesso piano ‘il mancato impedimento’ e il ‘ cagionare’. Si deduce che i reati omissivi impropri puniscono il soggetti per aver posto in essere una diversa modalità (appunto, omissiva) di aggressione al bene giuridico tutelato dalla norma penale in quanto egli ha realizzato l’evento che la norma vuole evitare, similmente a quanto avviene in punto di accertamento della condotta colposa. I reati omissivi impropri hanno inoltre posto un serio problema di accertamento del nesso causale, specialmente in ambito medico. Su questo problema, il vaglio della Corte di Cassazione si è snodato in tre differenti passaggi: negli anni ’90, con la sentenza Silvestri, la S.C. affermò che il nesso causale deve essere probabile; successivamente, nella sentenza Battisti, affermò la necessità della probabilità dell’evento vicina alla certezza, per poter rinviare a giudizio il medico; infine, con la sentenza Franzese del 2002, la Cassazione ha ritenuto sussistente il nesso causale in base ad un giudizio ipotetico – valutativo allorquando, dalle circostanze del fatto, risultano esclusi altri e diversi decorsi causali, a prescindere dalla maggiore o minore probabilità concreta di verificazione dell’evento. Emerge un atteggiamento maggiormente garantista nei confronti dell’indagato, anche per evitare di penalizzare la scienza medica, come infatti avvenne nel periodo successivo alla sentenza Battisti.
L’obbligo di attivarsi in tema di omissione deriva, secondo la dottrina più risalente, dalla teoria del trifoglio del Feuerbach, secondo cui l’obbligo deriva dalla legge, dal contratto o dalla precedente condotta illecita o pericolosa. In termini più moderni, l’obbligo di attivarsi si incardina in capo al soggetto che occupa una posizione di controllo su di una fonte di pericolo – e perciò è tenuto a garantire tutti i beni giuridici che potrebbero essere offesi da quella fonte – o una posizione di garanzia di un bene giuridico contro ogni possibile offesa. Esempio, nel primo caso, è il proprietario di una fabbrica di esplosivi; nel secondo caso, l’esempio è rappresentato dai genitori. In ogni caso, va tenuto presente che, al fine di escludere la punibilità ai sensi e per gli effetti delle norme in tema di omissione, deve avvenire la presa in carico e in concreto del bene giuridico da tutelare. Il titolare della posizione di garanzia o di controllo potrà delegare i propri compiti, per un arco di tempo limitato; naturalmente, egli non potrà mai spogliarsi del tutto della posizione di garanzia da lui assunta nell’ordinamento giuridico perché continuerà ad essere responsabile sotto il profilo della culpa in eligendo, qualora abbia delegato i propri compiti ad altro soggetto non capace dal punto di vista tecnico di assumere il ruolo delegato, o sotto il profilo della culpa in vigilando, qualora il titolare abbia omesso di sorvegliare l’attività delegata. In tal caso, delegante e delegato rispondono entrambi dell’evento cagionato dal delegato, in termini di concorso ex art. 110 c.p.