quando il datore di lavoro commette ingiuria

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L'uso di epiteti offensivi da parte del datore di lavoro costituisce il delitto di ingiuria che non viene escluso dal particolare contesto in cui l'espressione viene usata

Il datore di lavoro della sir.ra XXX aveva espresso rilievi negativi sulla condotta lavorativa della dipendente s'era rammaricata di tali rilievi. Il datore, nell'affermato intento di sdrammatizzare la situazione, aveva rivolto un epiteto oggettivamente offensivo alla donna (sei una stronza) ma in un contesto e con tonalità tale da lasciar intendere che si trattava di una rassicurazione  e non di un'ingiuria. I giudici hanno respinto la tesi difensiva datoriale, sul rilievo che il contesto ed il tono con i quali l'epiteto offensivo era stato pronunciato non attenuava la sua carica offensiva ed ingiuriosa atteso che la lavoratrice non poteva ritenersi tenuta a sottostare all’uso di espressioni oggettivamente offensive nè ad interpretarne la valenza in guisa diversa dall'obiettivo significato delle parole usate. Il datore di lavoro, quando fa rilievi di qualsiasi tipo a un dipendente non li può fare “a modo suo”, anche al di fuori dei normali e comuni canoni di civiltà sociale e giuridica.

cass pen sez v 29 settembre 2010 n 35099


Si configura il reato di ingiuria allorquando il datore di lavoro rivolga alla propria dipendente un'espressione oggettivamente spregiativa "sei una stronza"), non contribuendo ad escludere o attenuare la responsabilità datoriale il contesto - l'ambiente di lavoro - nel quale l'espressione è stata annunciata.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza emessa il 22.6.09, il tribunale di Avezzano ha confermato la sentenza emessa il 28.9.07 dal giudice di pace della stessa sede con la quale L.G. è stato condannato alla pena di Euro 240 di multa, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese in favore della parte civile, perchè ritenuto colpevole del reato di ingiuria in danno di A.S..
Il difensore dell'imputato ha presentato ricorso per i seguenti motivi:
1. violazione di legge in riferimento all'art. 594 c.p.: la frase rievocata dalla persona offesa nel corso dell'istruttoria dibattimentale "sei una stronza se te la prendi" non esprime un giudizio sulla persona ma un suo specifico comportamento e manca quindi la lesione del bene giuridico protetto dalla norma, che è l'onore.
Il vocabolo stronza è un epiteto forte, che è entrato nel linguaggio comune romanesco. Non ha rilevanza penale in quanto è stato pronunciato da L., che è romano e il cui linguaggio è generalmente colorito e lo è normalmente in ambiente di lavoro, in cui tutti lo conoscono e lo sanno interpretare come del tutto privo di contenuti offensivi. Trattasi di un'espressione bonaria, rassicurante e non offensiva, attraverso la quale il L. intendeva chiaramente far capire alla A. (sia pure a modo suo) che non era il caso di prendersela.
2. violazione di legge in riferimento agli artt. 594 e 42 c.p., mancanza di motivazione: la sentenza ha omesso l'ulteriore profilo delle censure avanzate nei motivi del gravame. La sentenza, pur riconoscendo la peculiarità del quadro storico in cui si è svolto il fatto incriminato, non ha motivato sulle ragioni per cui ha ugualmente ritenuto la sussistenza dell'elemento psicologico. Anche se è pacificamente riconosciuto che il reato richiede il solo dolo generico, il giudice deve tenere conto della peculiarità di determinate vicende onde evitare un riconoscimento automatico del dolo medesimo.
Con la frase pronunciata - che non ha nulla di penalmente offensivo - L. ha ripreso paternalisticamente e goffamente la persona offesa, per il fatto di crucciarsi per un rimprovero, invitandola a non farlo. Affermare che il L. - persona adusa ad un linguaggio colorito - abbia percepito nell'espressione usata, la carica offensiva che la sentenza riconosce, è operazione priva di riscontro sul piano fattuale e tale da condurre a una valutazione del fatto su schemi astratti del tutto scollati da una valutazione del caso concreto.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso non merita accoglimento, proprio in virtù dell'attento esame del caso concreto e delle logiche conclusioni che sono contenute nella sentenza impugnata e nella richiamata sentenza del giudice di pace. Il caso concreto è il seguente:
a) L., imprenditore e datore di lavoro della A., ha effettuato rilievi negativi sulla condotta lavorativa della dipendente;
b) L' A. se ne è doluta e ha esposto il suo rammarico;
c) L. ha criticato la suscettibilità della donna, definendola stronza, usando, cioè, un termine che, per la sostanza organica richiamata, attribuisce - secondo il comune significato recepito da tutti gli italiani, romani compresi, e al di là della sua derivazione longobarda - (p. 2 delle sentenza trib.) - al destinatario qualifica di persona meritevole di disprezzo, di disistima.
Il contesto ripetutamente sottolineato dal ricorrente, in cui è stato pronunciato il termine,non esclude, non attenua la sua carica offensiva: la A. non è tenuta a sottostare all'uso di epiteti di disprezzo e di disistima in virtù delle generali scelte di espressione del datore di lavoro. Questi, quando fa rilievi di qualsiasi tipo a un dipendente non li può fare "a modo suo", anche al di fuori dei normali e comuni canoni di civiltà sociale e giuridica. Se L. ha percepito la reazione negativa della donna per un precedente rimprovero, non può impunemente "censurare" la sua suscettibilità con un termine fortemente dispregiativo. Proprio il rilievo riconosciuto alla finalità afflittiva e punitiva dell'espressione stronzo, rende evidente come il L., abbia agito con la consapevolezza e con la finalità di recar danno, di offendere la dipendente, per il mancato gradimento del precedente rimprovero.
Il paternalismo e la goffaggine invocati come dimostrativi della mancata percezione della carica offensiva non sono affatto scriminanti rispetto alla ritenuta rilevanza penale della condotta del L., aduso a linguaggio colorito : nel nostro ordinamento il contesto lavorativo è caratterizzato da una pari dignità dei suoi protagonisti, da una pari effettività di tutta la normativa, senza che possa invocarsi, per nessuna delle parti, una desensibilizzazione alle altrui trasgressioni.
In linea generale, il richiamo al concetto del contesto,quale circostanza attenuante o addirittura come causa esimente nei reati contro i diritti della persona, di cui al Titolo 12^, capo 2^, non può tradursi in un' insostenibile affermazione di abrogazione per desuetudine di norme penali in quanto proiettate in un quadro sociologicamente e/o culturalmente disegnato dal giudice. Questa depenalizzazione di condotte trasgressive riveste spiccata insostenibilità in materia di rispetto della dignità umana, ancor maggiore quando è in gioco la dignità del lavoratore.
Il ricorso va quindi rigettato con condanna del L. al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese della parte civile, che liquida in complessivi Euro 800, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese della parte civile, che liquida in complessivi Euro 1.800, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 5 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2010

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