corte cost su contributo di perequazione

La Corte Costituzionale si pronuncia sul contributo di perequazione: è illegittimo per violazione degli articoli 53 e 3 della Costituzione

La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, come modificato dall'articolo 24, comma 31-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201  nella parte in cui disponeva che, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, i trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, di importi complessivamente superiori a 90.000 euro lordi annui, fossero assoggettati ad un contributo di perequazione pari al 5 per cento della parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché pari al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente 200.000 euro.

Secondo le ordinanze di rimessione il contributo di perequazione in questione, si porrebbe in contrasto con gli articoli 2, 3, 36 e 53, della Costituzione in quanto tale prelievo, avendo natura tributaria, sarebbe operato in violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, correlati a quello di capacità contributiva.  

Inoltre, la disciplina in esame recherebbe vulnus anche agli artt. 42, terzo comma, e 97, primo comma, Cost., poichè realizzerebbe per via legislativa un intervento ablatorio della proprietà, colpendo una determinata categoria di soggetti, in assenza di previa valutazione degli interessi coinvolti e senza che sia prevista la corresponsione di un'indennità di ristoro, in quanto «l'accurato esame degli interessi in gioco e la ponderata decisione della misura e delle modalità del sacrificio secondo il principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) non può non valere anche per il legislatore-amministratore».

La Consulta ha ritenuto la natura di prelievo tributario del contributo di perequazione e ne ha conseguentemente inferito l'illegittimità costituzionale ai sensi degli art. 53 e 3 della Costituzione. In particolare, ha osservato la Consulta, viola il principio di eguaglianza tra i contribuenti l'aver imposto un contributo di solidarietà con diverse soglie impositive e diverse aliquote a carico della categoria dei contribuenti pensionati rispetto a tutti gli altri percettori di reddito.

Stante la natura di prelievo tributario del contributo di perequazione, infatti, i contribuenti pensionati avrebbero dovuto essere considerati alla stregua degli altri contribuenti e, conseguentemente, l'eventuale prelievo imposto dalla difficile situazione economica avrebbe dovuto essere esteso a tutti i poercettori di reddito (pensionati e non).  

 

Ritenuto in fatto

 

1.- La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, in composizione monocratica, con ordinanza del 20 luglio 2012, iscritta al reg. ord. n. 254 del 2012, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 36, 53, 42, terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.
 
1.1.- Il rimettente premette che il ricorrente - magistrato Presidente della Corte dei conti in quiescenza dal 21 dicembre 2007, titolare di pensione diretta di importo superiore a euro 90.000,00 annui - ha chiesto il riconoscimento del proprio diritto di percepire il trattamento pensionistico ordinario, privo delle decurtazioni introdotte dall'art. 18, comma 22-bis, del d.l. 6 luglio n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, nonché la condanna dell'Amministrazione ai conseguenti pagamenti. La Corte ricorda, inoltre, come a sostegno del ricorso sia stata dedotta l'illegittimità costituzionale della citata norma, per violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 108, 111 e 113 Cost.
 
1.2.- In punto di rilevanza, il rimettente assume in primo luogo che il ricorso ha un petitum separato e distinto dalla questione di costituzionalità, sul quale è chiamato, in ragione della propria competenza, a decidere, trattandosi di una domanda tesa ad ottenere il riconoscimento del diritto a conservare il proprio trattamento pensionistico senza le decurtazioni disposte dal citato comma 22-bis. Inoltre, osserva che, laddove non si dubitasse della compatibilità costituzionale della norma, la pretesa dovrebbe senz'altro essere dichiarata infondata, in quanto le decurtazioni stipendiali censurate risultano fissate direttamente ed inderogabilmente dalle «stringenti ed inequivoche disposizioni di legge applicate doverosamente dall'amministrazione datrice di lavoro», senza alcuna possibilità di interpretazioni alternative.
 
1.3.- Ciò posto, il giudice a quo osserva che la disposizione impugnata si colloca nel quadro di una serie di previsioni finalizzate al contenimento della spesa pubblica ed alla stabilizzazione finanziaria, in particolare in materia previdenziale, che impone ai pensionati pubblici sacrifici di considerevole entità.
1.4.- In primo luogo, secondo la Corte dei conti, la norma in questione si configurerebbe come prestazione patrimoniale imposta, ai sensi dell'art. 23 Cost., nonché come prelievo forzoso di natura tributaria, non rispettoso, tuttavia, dei principi di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.) correlati a quello di capacità contributiva (art. 53 Cost.).
 
A suo giudizio, infatti, l'imposizione del sacrificio economico individuale avrebbe tutte le caratteristiche del prelievo tributario, perché realizzato attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, il cui gettito è destinato al fabbisogno finanziario dello Stato sotto forma di risparmio di spesa (richiama in proposito la sentenza di questa Corte n. 11 del 1995).
 
Al di là del nomen iuris utilizzato, dunque, si tratterebbe di un prelievo forzoso di somme stipendiali, privo di "sinallagmaticità" e destinato a copertura di fabbisogni finanziari indifferenziati dello Stato apparato.
 
Il rimettente osserva, tuttavia, che tale prestazione graverebbe soltanto su «alcune categorie di pensionati, lasciando inspiegabilmente ed illogicamente indenni tutte le altre categorie dei settori previdenziali privato ed autonomo: categorie tutte caratterizzate dall'unitarietà riconducibile al principio costituzionale di tutela dei pensionati». Non si tratterebbe di una mera rideterminazione o "raffreddamento" dei livelli previdenziali pubblici, in astratto possibile essendo acquisito il principio della possibilità di una disciplina differenziata del rapporto previdenziale pubblico rispetto a quello privato, ma di una vera e propria imposta, gravante non su tutti i pensionati, ma esclusivamente su quelli pubblici.
 
Tale disciplina si porrebbe in contrasto con il principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost., coordinato con i principi di eguaglianza, parità di trattamento e capacità contributiva (artt. 3 e 53 Cost.).
 
Il rimettente ricorda in proposito che la giurisprudenza di questa Corte, su analoga questione relativa alla "manovra di bilancio" approntata con il decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438 (ordinanze n. 341 del 2000 e n. 299 del 1999), aveva precisato che il sacrificio economico richiesto dal provvedimento legislativo deve avere carattere eccezionale, transeunte, non arbitrario e consentaneo allo scopo prefisso, sicchè non solo deve essere limitato ad un ristretto periodo di tempo, ma deve anche essere razionalmente ripartito fra categorie diverse di cittadini.
 
La norma impugnata avrebbe violato, pertanto, i parametri costituzionali invocati (artt. 3, 36 e 53 Cost.) non solo sotto il profilo della sproporzione ed irrazionalità della misura, ma anche specificamente sotto il profilo della disparità di trattamento, in quanto non sarebbero state colpite le altre categorie di pensionati, pur se percettori di elevati trattamenti, e i contribuenti in generale titolari degli stessi redditi.
 
Il prelievo in questione, in definitiva, non solo non sarebbe idoneo a garantire risparmi di spesa o introiti tali da realizzare significativamente l'obiettivo di stabilizzazione della finanza pubblica, ma si presenterebbe come irrazionale e discriminatorio, essendo diretto a colpire una limitata categoria di soggetti, anzichè la collettività nel suo insieme, nel rispetto del principio di proporzionalità, in violazione quindi sia del principio solidaristico, che di quello di uguaglianza e di assoggettamento al prelievo fiscale in proporzione alla capacità retributiva.
 
Richiamando, poi, testualmente precedenti ordinanze di rimessione di altri giudici, il rimettente afferma che il legislatore avrebbe «inspiegabilmente ed ingiustificatamente aumentato gli squilibri, trascurando del tutto di colpire le ricchezze evase al fisco e persino gli introiti derivanti da rendite ben conosciute (quali le rendite catastali e finanziarie), per concentrarsi su una fascia specifica di pensionati, colpevoli unicamente di appartenere al settore pubblico e di avere redditi facilmente accertabili ed ancora più facilmente "attaccabili"».
 
1.5.- La norma censurata infine, secondo il giudice a quo, si porrebbe anche in contrasto con gli artt. 42, terzo comma, e 97, primo comma, Cost., in quanto realizzerebbe per via legislativa un intervento ablatorio della proprietà, colpendo una determinata categoria di soggetti, in assenza di previa valutazione degli interessi coinvolti e senza che sia prevista la corresponsione di un'indennità di ristoro, in quanto, «l'accurato esame degli interessi in gioco e la ponderata decisione della misura e delle modalità del sacrificio secondo il principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) non può non valere anche per il legislatore-amministratore».
 
2.- È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.
 
La manovra di finanza pubblica oggi censurata sarebbe, a suo giudizio, intervenuta in maniera non dissimile dalla manovra del 1993 (art. 7 del d.l. n. 384 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 438 del 1992), rispetto alla quale la Corte costituzionale aveva dichiarato analoghe questioni manifestamente infondate (ordinanza n. 299 del 1990). In quelle occasioni questa Corte aveva affermato che norme di tale natura non si ponevano in contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto intervenute «in un momento assai delicato per la vita economico-finanziaria del paese».
 
Inoltre, a sostegno dell'infondatezza della questione, l'Avvocatura dello Stato ricorda altresì che anche la sentenza n. 223 del 2012 ha ribadito la possibilità dell'utilizzo necessario da parte del legislatore di strumenti eccezionali in situazioni di difficoltà economica, «nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti i cittadini necessitano».
 
Ciò posto, in questo caso la norma impugnata non si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., giacché si tratterebbe di un intervento che non limita la platea dei soggetti passivi ai soli pensionati pubblici, ma si rivolge a tutti i percettori di trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, e quindi anche ai già dipendenti del settore privato ed alle gestioni pensionistiche dei lavoratori autonomi.
 
Inoltre, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, anche in riferimento all'art. 53 Cost. l'intervento censurato sarebbe pienamente rispettoso dei criteri di capacità contributiva e di progressività.
 
Infine, viene contestata la questione sollevata con riferimento all'art. 42 Cost., in quanto, trattandosi di materia tributaria, non sarebbe concepibile alcun indennizzo come ristoro per un prelievo fiscale.
 
Da ultimo, l'Avvocatura dello Stato rileva che l'impatto sulla finanza pubblica della normativa censurata, alla
luce delle relazioni tecniche presentate in Parlamento nel corso dell'iter di conversione del d.l. n. 98 del 2011, viene stimato in circa 26 milioni di euro per anno.
 
3.- Nel giudizio si è costituito l'INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale), successore ex lege dell'INPDAP (Istituto Nazionale di Previdenza e Assistenza per i Dipendenti dell'Amministrazione Pubblica), ai sensi dell'art. 21 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, eccependo in via pregiudiziale l'inammissibilità della questione per carenza di giurisdizione del giudice rimettente.
 
Secondo l'ente previdenziale, poiché il prelievo previsto dal citato art. 18, comma 22-bis, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 421 del 1995, n. 11 del 1995, n. 63 del 1990 e n. 146 del 1972) ha natura di prestazione patrimoniale imposta, la giurisdizione sarebbe riservata in via esclusiva alle Commissioni tributarie (sentenza della Corte di cassazione civile, sezioni unite, 27 ottobre 2011, n. 22381). La circostanza secondo la quale il prelievo fiscale operato dal sostituto d'imposta determinerebbe una materiale riduzione dell'importo erogato al pensionato, non sarebbe infatti idonea all'individuazione della giurisdizione in capo al Giudice delle pensioni, poiché il trattamento oggetto di prelievo forzoso rimarrebbe integro «tal quale determinato dall'Ente previdenziale, senza alcuna modificazione delle poste contabili già individuate».
 
3.1.- Nel merito, la parte costituita ritiene la questione infondata, in primo luogo con riferimento all'art. 3 Cost., in quanto la disposizione in esame riguarderebbe l'intera platea dei titolari di trattamenti pensionistici, ivi compresi quelli integrativi, senza l'asserita esclusione degli ordinamenti previdenziali privato ed autonomo. Tale assunto sarebbe, poi, dimostrato dalle modalità applicative seguite dall'INPDAP prima, dall'INPS e dagli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, poi, i quali hanno emanato apposite circolari al fine di regolare le modalità concrete per disporre il prelievo.
 
Neppure sarebbe sussistente, secondo l'INPS, una discriminazione rispetto alla generalità dei consociati, in quanto secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la formulazione dell'art. 53 Cost. andrebbe valutata in termini non assoluti, ma relativi, imponendo di interpretare il principio dell'universalità dell'imposizione in necessario coordinamento con il principio solidaristico e di uguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost., essendo ben possibile l'introduzione, per singole categorie di cittadini, di specifici tributi, purché nei limiti della ragionevolezza.
 
Infine, quanto alla questione relativa alla violazione del principio della espropriabilità della proprietà privata, salva corresponsione di un indennizzo, ai sensi dell'art. 42, terzo comma, Cost., il dubbio sarebbe infondato, in quanto la speciale ablazione della proprietà privata, ordinata al fine del concorso dei consociati alle pubbliche spese di cui all'art. 53 Cost., non prevede, né potrebbe prevedere, alcun indennizzo.
 
4.- Con le due ordinanze, di identico tenore ed entrambe depositate in data 25 febbraio 2013, iscritte rispettivamente al registro ordinanze con i nn. 55 e 56 del 2013, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 53, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 18, comma 22-bis, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011.
 
4.1.- Il rimettente premette che i ricorrenti - tutti magistrati ordinari, magistrati della Corte dei conti, magistrati militari titolari di pensione ordinaria diretta, ovvero aventi causa da magistrati della Corte dei conti e da magistrati amministrativi - hanno proposto ricorso avverso il trattamento pensionistico loro attribuito a partire dal mese di agosto 2011, nella parte in cui è assoggettato al "contributo di perequazione" previsto dal comma 22-bis dell'art. 18 del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, come reintrodotto dall'art. 2, comma l, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, nelle percentuali ivi stabilite, come risultanti dalle rispettive certificazioni CUD per l'anno 2011.
Nell'ordinanza iscritta al reg. ord. n. 55 del 2013, si afferma che i ricorrenti hanno chiesto, altresì, la corresponsione della mancata rivalutazione automatica del loro trattamento pensionistico in applicazione del comma 25 dell'art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011.
Tutti i ricorrenti hanno chiesto, dunque, la corresponsione del proprio trattamento pensionistico senza assoggettamento al predetto "contributo di perequazione" e con conseguente condanna alla restituzione di quanto trattenuto per tali titoli, con rivalutazione monetaria e interessi sino al soddisfo.
 
4.2.- In particolare, i ricorrenti hanno chiesto alla Corte dei conti, nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al reg. ord. n. 55 del 2013, di rimettere alla Corte costituzionale le questioni di costituzionalità: A) del comma 22-bis dell'art. 18. del d.l. n. 98 del 2011, per contrasto con gli artt. 2, 3, 53, 23 e 97 Cost.; B) del comma 25 dell'art. 24 del d.l. n. 20l del 2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, per contrasto con gli artt. 3, 53, 97, 36 e 38 Cost.
 
Quanto alla questione di legittimità costituzionale di cui al punto B), il giudice a quo, ancorché rilevante, la riteneva manifestamente infondata con separato provvedimento.
 
4.3.- Nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al reg. ord. n. 56 del 2013, i ricorrenti hanno chiesto alla Corte dei conti, di rimettere alla Corte costituzionale le questioni di legittimità costituzionale: A) del comma 22-bis dell'art. 18 del d.l. n. 98 del 2011, per contrasto con gli artt. 2, 3, 53, 23 e 97 Cost.; B) dell'art. 2, commi l e 2, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011; C) dell'art. l, commi l e 5, della legge 6 luglio 2012, n. 96 (Norme in materia di riduzione dei contributi pubblici in favore dei partiti e dei movimenti politici, nonché misure per garantire la trasparenza e i controlli dei rendiconti dei medesimi. Delega al Governo per l'adozione di un testo unico delle leggi concernenti il finanziamento dei partiti e dei movimenti politici e per l'armonizzazione del regime relativo alle detrazioni fiscali).
La Corte riteneva irrilevante la questione sub B) e manifestamente infondata quella sub C).
 
4.4.- Ciò posto, il giudice a quo - dopo aver osservato, in punto di rilevanza, di trovarsi nell'impossibilità di poter definire il giudizio indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale - in ordine alla specifica eccezione sollevata dalla resistente INPS, quale successore ex lege dell'INPDAP, afferma la propria giurisdizione sulle domande avanzate.
 
Secondo il rimettente, la giurisdizione della Corte dei conti in materia di pensioni ha carattere esclusivo, in quanto affidata al criterio di collegamento costituito dalla materia. In essa sono, dunque, comprese tutte le controversie in cui il rapporto pensionistico costituisca elemento identificativo del petitum sostanziale ovvero sia comunque in questione la misura della prestazione previdenziale.
 
La circostanza che il contributo di perequazione sia previsto da una norma "di natura tributaria" non trasformerebbe il rapporto tra enti gestori di forme di previdenza obbligatorie e beneficiari dei relativi trattamenti pensionistici in un rapporto tributario.
 
Nella fattispecie tale rapporto, al quale è estranea l'Amministrazione finanziaria - coerentemente non evocata in giudizio - non riguarderebbe una contestazione diretta della debenza all'Erario della somma trattenuta, ovvero un rapporto tributario tra contribuente ed Amministrazione. Le controversie relative all'indebito pagamento dei tributi seguirebbero, infatti, la regola della devoluzione alla giurisdizione speciale del giudice tributario soltanto allorchè si debba impugnare uno degli atti previsti dall'art. 19 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) e il convenuto in senso formale sia uno dei soggetti indicati nell'art. 10 di tale decreto legislativo. Quando la controversia si svolga tra due soggetti privati in assenza di un provvedimento impugnabile soltanto dinanzi al giudice tributario, il giudice ordinario, quindi, si riapproprierebbe della giurisdizione, non rilevando che la composizione della lite necessiti della interpretazione di una norma tributaria.
 
4.5.- Quanto alle questioni sub A), il rimettente, con ordinanze identiche quanto a motivazione, premette che questa Corte ha espressamente riconosciuto la natura tributaria della misura in questione. In particolare, viene ricordato che la sentenza n. 241 del 2012 ha affermato che il "contributo di perequazione" di cui comma 22-bis dell'art. 18 del d.l. n. 98 del 2011 «ha natura certamente tributaria, in quanto costituisce un prelievo analogo a quello effettuato sul trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici [...] nella parte dichiarata illegittima da questa Corte con la sentenza n. 223 del 2012 e la cui natura tributaria è stata espressamente riconosciuta dalla medesima sentenza». La norma impugnata, infatti, integrerebbe una decurtazione patrimoniale definitiva del trattamento pensionistico, con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare, che presenta tutti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza della Corte per caratterizzare il prelievo come tributario, ovvero, indipendentemente dal nomen iuris attribuitole dal legislatore, quelli di un prelievo coattivo finalizzato al concorso delle pubbliche spese, posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva che deve esprimere l'idoneità di tale soggetto all'obbligazione tributaria.
Il giudice a quo, inoltre, dopo aver richiamato i principi enucleati nella sentenza n. 223 del 2012, assume che l'impugnato art. 18, comma 22-bis, del d.l. n. 98 del 2011 si pone in contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost.
In primo luogo, infatti, a parità di reddito con la categoria dei lavoratori (pubblici o privati), il prelievo sarebbe ingiustificatamente posto a carico della sola categoria dei pensionati degli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, con conseguente irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi. Il legislatore, affrontando l'eccezionale situazione economica avrebbe utilizzato uno strumento eccezionale, senza tuttavia garantire il rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e, in particolare, del principio di uguaglianza (come specificato dalla citata sentenza n. 223 del 2012, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 9, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122).
 
Peraltro, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli articoli artt. 2, 3 e 53 Cost. anche in quanto lo speciale prelievo di solidarietà si imporrebbe nei confronti dei soli magistrati in pensione, come conseguenza indotta dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'analogo prelievo scrutinato dalla sentenza n. 223 del 2012. Conseguentemente, il principio di uguaglianza in relazione alla capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost. sarebbe ulteriormente vulnerato, nella specie, in quanto la suddetta categoria di pensionati verrebbe «colpita in misura maggiore rispetto ai titolari di altri redditi e, più specificamente, di redditi da lavoro dipendente» (in analogia con quanto deciso dalla sentenza n. 119 del 1981).
 
La Corte rimettente, inoltre, assume quale ulteriore motivo di censura anche la stessa entità del contributo di perequazione, posto in comparazione con quello previsto dall'art. 2, comma 2, del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011. Sarebbe, infatti, irragionevole ed ingiustificato che - con riferimento a interventi di solidarietà connotati da sostanziale identità di ratio - i contribuenti titolari di un reddito complessivo superiore a 300.000 euro siano tenuti al versamento di un contributo di solidarietà del 3% sulla parte di reddito che eccede il predetto importo, qualunque siano le componenti del loro reddito complessivo, compresi i redditi pensionistici, mentre i ricorrenti siano tenuti (per far fronte alla medesima eccezionale situazione economica) ad un prelievo maggiore. Sintomatico sarebbe peraltro che, oltre la soglia di reddito di 300.000 euro lordi annui, a parità di reddito, l'una categoria (tendenzialmente universale) subisce un'imposizione del 3%, l'altra (circoscritta ai soli pensionati titolari di trattamenti di quiescenza corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatoria) un'imposizione del 15%, in violazione dei canoni costituzionali dell'eguaglianza e della ragionevolezza stabiliti dall'art. 3 Cost., nonché del canone della capacità contributiva e del criterio di progressività delle imposte sanciti dall'art. 53 Cost.
 
Secondo la Corte dei conti, quindi, qualora la norma impugnata non venisse espunta dall'ordinamento giuridico, determinerebbe un ulteriore profilo di irrazionalità complessiva del sistema delle imposte speciali, inducendo un correlato irragionevole effetto discriminatorio, tenuto conto che lo stesso contributo di solidarietà di cui citato art. 2, comma 2, del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, non si applica sui redditi di cui all'articolo 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, con conseguente «irragionevole ed arbitrario disallineamento normativo derivante dall'asimmetricità nel meccanismo impositivo del contributo di solidarietà».
 
5.- Anche in tali giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, ribadendo le argomentazioni svolte nell'altro giudizio, in particolare con riferimento alla legittimità di manovre di bilancio poste in essere «in un momento assai delicato per la vita economico-finanziaria del paese» ed alla conseguente infondatezza delle questioni, non trattandosi di un intervento che limita la platea dei soggetti passivi ai soli pensionati pubblici, in quanto si rivolge a tutti i percettori di trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie. Non rileverebbe, infatti, la qualificazione pubblicistica o privatistica del rapporto di lavoro, ma unicamente la natura del trattamento, come sarebbe dimostrato, peraltro, dalla circolare INPS n. 109 del 2011, la quale espressamente dispone che, ai fini dell'individuazione dei soggetti per i quali opera il contributo, devono essere presi in considerazione tutti i trattamenti pensionistici obbligatori e i trattamenti pensionistici integrativi e complementari, sia erogati dall'INPS che da enti diversi dall'INPS.
Inoltre, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, anche in riferimento all'art. 53 Cost. l'intervento censurato sarebbe pienamente rispettoso dei criteri di capacità contributiva e di progressività.
6.- Anche in questi giudizi si è costituito l'INPS, con atto di tenore identico a quello relativo al giudizio iscritto al reg. ord. n. 254 del 2012.
 
7.- Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 55 del 2013, si sono costituite le parti private ricorrenti nel giudizio a quo, che hanno ripercorso pedissequamente le motivazioni dell'ordinanza di rimessione, sostenendo che, alla luce della natura di prestazione imposta del prelievo, la norma censurata sarebbe illegittima perché in contrasto con il principio di uguaglianza tributaria e di capacità contributiva nonché con il principio solidaristico, essendo una misura che colpirebbe soltanto la categoria dei pensionati, anche in considerazione dell'intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale relativa al contributo di cui all'art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010. A giudizio dei ricorrenti, le motivazioni adottate dalla Corte con riferimento a quella norma sarebbero applicabili anche al caso di specie, tenuto conto della pacifica "natura di retribuzione differita" da attribuire alle pensioni (citano in proposito la sentenza n. 30 del 2004).
 
8.- Nel medesimo giudizio è intervenuto il Gruppo Romano Giornalisti Pensionati, il quale, premesso di essere un'associazione, senza fini di lucro, che intende tutelare i suoi circa 300 soci che hanno subito le decurtazioni pensionistiche, tramite l'INPGI, fra i quali 4 dei 12 che compongono l'attuale consiglio direttivo, e di poter essere dunque annoverato fra gli enti esponenziali di interessi diffusi, conclude per l'accoglimento delle questioni, precisando, quanto all'ordinanza n. 254 del 2012, che il tertium comparationis non potrebbe essere individuato nei pensionato privati, alla luce del tenore letterale della disposizione.
 
Considerato in diritto
 
1.- Sono sottoposte all'esame della Corte questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, nel testo successivamente modificato dall'articolo 24, comma 31-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, sollevate dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania e per la Regione Lazio, con tre ordinanze depositate rispettivamente il 20 luglio 2012 ed il 22 febbraio 2013, iscritte al reg. ord. n. 254 del 2012 e nn. 55 e 56 del 203.
 
2.- Secondo la Corte dei conti, sezione giurisdizionale della Campania (ordinanza iscritta al reg. ord. n. 254 del 2012), la norma censurata, disponendo che, a decorrere dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, i trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie, i cui importi complessivamente superino 90.000 euro lordi annui, sono assoggettati ad un contributo di perequazione pari al 5 per cento della parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché pari al 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro e al 15 per cento per la parte eccedente 200.000 euro, si porrebbe in contrasto con gli articoli 2, 3, 36 e 53, della Costituzione in quanto tale prelievo, avendo natura tributaria - perché realizzato attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, con destinazione del gettito al fabbisogno finanziario dello Stato -, sarebbe operato in violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, correlati a quello di capacità contributiva. L'intervento censurato, in primo luogo, colpirebbe la sola categoria dei pensionati pubblici, «lasciando inspiegabilmente ed illogicamente indenni tutte le altre categorie dei settori previdenziali privato ed autonomo: categorie tutte caratterizzate dall'unitarietà riconducibile al principio costituzionale di tutela dei pensionati»; in secondo luogo, analoga misura non sarebbe prevista per i contribuenti in generale, titolari degli stessi redditi.
 
A giudizio della Corte campana, poi, la disciplina in esame recherebbe vulnus anche agli artt. 42, terzo comma, e 97, primo comma, Cost., poichè realizzerebbe per via legislativa un intervento ablatorio della proprietà, colpendo una determinata categoria di soggetti, in assenza di previa valutazione degli interessi coinvolti e senza che sia prevista la corresponsione di un'indennità di ristoro, in quanto «l'accurato esame degli interessi in gioco e la ponderata decisione della misura e delle modalità del sacrificio secondo il principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) non può non valere anche per il legislatore-amministratore».
 
2.1.- Le ordinanze iscritte al reg. ord. nn. 55 e 56 del 2013, di identico tenore ed entrambe emesse dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale del Lazio, assumono che la norma impugnata violerebbe gli artt. 2, 3 e 53 Cost., poichè, come precisato anche dalla sentenza n. 241 del 2012 di questa Corte, pur avendo il «contributo di perequazione» natura «certamente tributaria, in quanto costituisce un prelievo analogo a quello effettuato sul trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici [...] nella parte dichiarata illegittima dalla Corte con la sentenza n. 223 del 2012», e pur essendo stato adottato in una eccezionale situazione economica, non garantirebbe il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito con la categoria dei lavoratori (pubblici o privati), essendo ingiustificatamente posto a carico della sola categoria dei pensionati degli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria, con conseguente irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi.
 
Il contributo in questione sarebbe stato adottato, poi, in violazione del principio di uguaglianza in relazione alla capacità contributiva, perché imposto nei confronti dei soli magistrati in pensione, categoria «colpita in misura maggiore rispetto ai titolari di altri redditi e, più specificamente, di redditi da lavoro dipendente», come conseguenza indotta dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'analogo prelievo dichiarato illegittimo dalla sentenza n. 223 del 2012.
 
Inoltre, posto in comparazione con il contributo previsto dall'art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, il prelievo sarebbe palesemente irragionevole ed ingiustificato, perché - con riferimento a interventi di solidarietà connotati da sostanziale identità di ratio - i contribuenti titolari di un reddito complessivo superiore a 300.000 euro sarebbero tenuti al versamento di un contributo di solidarietà del 3% sulla parte di reddito che eccede il predetto importo, qualunque siano le componenti del loro reddito complessivo, compresi redditi pensionistici, mentre i ricorrenti nei giudizi principali, sarebbero tenuti (per far fronte alla medesima eccezionale situazione economica) ad un prelievo maggiore, in violazione non solo dei canoni costituzionali dell'eguaglianza e della ragionevolezza, ma anche di quelli della capacità contributiva e del criterio di progressività delle imposte.
 
Infine, la disposizione in esame determinerebbe, a giudizio dei rimettenti, un irragionevole effetto discriminatorio, in quanto lo stesso contributo di solidarietà di cui al citato art. 2, comma 2, del d.l. n. 138 del 2011, non trova applicazione sui redditi di cui all'articolo 9, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, con conseguente «irragionevole ed arbitrario disallineamento normativo derivante dall'asimmetricità nel meccanismo impositivo del contributo di solidarietà».
 
3.- Tutte le ordinanze hanno ad oggetto la stessa norma, censurata con argomentazioni in larga misura coincidenti, e, quindi, va disposta la riunione dei giudizi, ai fini di un'unica trattazione e di un'unica pronuncia.
 
4.- Preliminarmente, va confermata l'ordinanza letta nella pubblica udienza del 7 maggio 2013, che ha dichiarato inammissibile l'intervento spiegato nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 55 del 2013 dal Gruppo Romano Giornalisti Pensionati. L'intervento di soggetti estranei al giudizio principale è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza letta all'udienza del 23 ottobre 2012, confermata con la sentenza n. 272 del 2012; ordinanza letta all'udienza del 23 marzo 2010, confermata con la sentenza n. 138 del 2010; ordinanza letta all'udienza del 31 marzo 2009, confermata con la sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008 e n. 245 del 2007).
 
Nel giudizio, da cui traggono origine le questioni di legittimità costituzionale, i rapporti sostanziali dedotti in causa riguardano profili che possono riguardare le posizioni previdenziali dei soci dell'ente intervenuto, ma non concernono direttamente prerogative o diritti dei medesimi, con conseguente inammissibilità dell'intervento.
 
5.- Ancora in via preliminare, va respinta l'eccezione, sollevata dall'INPS, di inammissibilità della questione, sotto il profilo che la giurisdizione spetterebbe non al rimettente, ma al giudice tributario.
 
In considerazione dell'autonomia del giudizio incidentale di costituzionalità rispetto a quello principale, questa Corte ha costantemente affermato che il difetto di giurisdizione può rilevare soltanto nei casi in cui appaia macroscopico, così che nessun dubbio possa aversi sulla sua sussistenza; non anche quando il rimettente abbia motivato in maniera non implausibile in ordine alla sua giurisdizione (da ultimo sentenze n. 279 del 2012 e n. 241 del 2008). Nella specie, i rimettenti, in particolare nelle ordinanze n. 55 e n. 56 del 2013, sulla specifica eccezione sollevata dalla parte costituita in quel giudizio, hanno affermato la propria giurisdizione sulla base di motivazioni del tutto plausibili. A loro giudizio, la natura tributaria della norma che prevede il contributo di perequazione non trasforma il rapporto tra enti gestori di forme di previdenza obbligatorie e beneficiari dei relativi trattamenti pensionistici in un rapporto tributario, in quanto la devoluzione alla giurisdizione speciale del giudice tributario presuppone che sia impugnato uno degli atti previsti dall'art. 19 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) e che il convenuto in senso formale sia uno dei soggetti indicati nell'art. 10 di tale decreto legislativo.
 
A fronte di siffatta espressa statuizione, il sindacato di questa Corte non può che arrestarsi, attesa la non implausibilità di una simile motivazione, peraltro in linea con i principi espressi dalle sezioni unite della Corte di cassazione, in sede di regolamento di giurisdizione, richiamati dalle ordinanze di rimessione.
 
6.- La questione sollevata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost. è fondata.
 
7.- La norma censurata si inserisce nell'ambito del d.l. n. 98 del 2011, recante disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria, emanato nel quadro di una più articolata manovra di stabilizzazione che ha avuto inizio con il d.l. n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, sviluppatasi in seguito attraverso altri interventi, contenuti nel d.l. n. 138 del 2011. In tali manovre sono state contemplate, per quanto attiene specificamente alle situazioni evocate dalle ordinanze in esame, misure dirette a perseguire un generale "raffreddamento" delle dinamiche retributive del pubblico impiego, oltre a interventi temporanei di riduzione delle retribuzioni e ad interventi "di solidarietà", variamente articolati, quanto a diverse categorie di cittadini, posti a carico sia del personale dipendente dalle pubbliche amministrazioni, sia della generalità di cittadini.
 
Per quanto qui interessa, con riferimento alla norma censurata, questa Corte ha ricostruito la portata dell'attuale formulazione e dell'attuale vigenza della disposizione. La legge 14 settembre 2011, n. 148, nel non convertire in legge l'originaria formulazione del comma 1 dell'art. 2 del d.l. n. 138 del 2011 (che aveva abrogato il comma 22-bis dell'art. 18 del d.l. n. 98 del 2011), ha sostituito, come già osservato nella sentenza n. 241 del 2012, il comma non convertito con una disposizione che si è limitata a riaffermare la perdurante efficacia del comma 22-bis dell'art. 18 del d.l. n. 98 del 2011 («le disposizioni di cui agli articoli [...] 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011 n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, continuano ad applicarsi nei termini ivi previsti rispettivamente dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2013 e dal 1° agosto 2011 al 31 dicembre 2014»).
 
Conseguentemente, con la mancata conversione, la stessa abrogazione è venuta meno, con effetto retroattivo, ai sensi dell'art. 77, terzo comma, Cost., cosí da determinare la reviviscenza del comma 22-bis abrogato dal decreto non convertito.
 
7.1.- Va altresì osservato che, alla luce del chiaro tenore letterale, la disposizione trova applicazione, in relazione alle erogazioni di trattamenti pensionistici obbligatoria, sia in favore del personale del pubblico impiego, sia in relazione a tutti gli altri trattamenti corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatori, ivi incluse le forme pensionistiche che garantiscono prestazioni in aggiunta o ad integrazione del trattamento pensionistico obbligatorio (comprese quelle di cui al decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 563, recante «Attuazione della delega conferita dall'articolo 2, comma 23, lettera b), della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di trattamenti pensionistici, erogati dalle forme pensionistiche diverse da quelle dell'assicurazione generale obbligatoria, del personale degli enti che svolgono le loro attività nelle materie di cui all'art. 1 del D.Lgs.C.P.S. 17 luglio 1947, n. 691», al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, recante «Disposizioni sulla previdenza degli enti pubblici creditizi», al decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, recante «Disciplina delle forme pensionistiche complementari»), nonché i trattamenti che assicurano prestazioni definite dei dipendenti delle regioni a statuto speciale e degli enti di cui alla legge 20 marzo 1975, n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), e successive modificazioni.
 
7.2.- Questa Corte ha già espressamente qualificato l'intervento di perequazione in questione come avente natura tributaria, non solo allorché si è occupata, dichiarandone l'illegittimità costituzionale, dell'analogo intervento di cui all'art. 9, comma 2 del decreto-legge n. 78 del 2010 (sentenza n. 223 del 2012), ma anche e soprattutto allorchè ha esaminato la stessa norma oggi impugnata, con la citata sentenza n. 241 del 2012.
 
In tale pronuncia è stato affermato che «il contributo oggetto di censura è previsto a carico dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie ed ha natura certamente tributaria, in quanto costituisce un prelievo analogo a quello effettuato sul trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici (sopra descritto al punto 7.3.) previsto dallo stesso comma 1 nella parte dichiarata illegittima da questa Corte con la suddetta sentenza n. 223 del 2012 e la cui natura tributaria è stata espressamente riconosciuta dalla medesima sentenza.
 
La norma impugnata, infatti, integra una decurtazione patrimoniale definitiva del trattamento pensionistico, con acquisizione al bilancio statale del relativo ammontare, che presenta tutti i requisiti richiesti dalla giurisprudenza di questa Corte per caratterizzare il prelievo come tributario (ex plurimis, sentenze n. 223 del 2012; n. 141 del 2009; n. 335, n. 102 e n. 64 del 2008; n. 334 del 2006; n. 73 del 2005)».
 
Nella specie, la Corte ribadisce la natura tributaria della norma impugnata, e pertanto la correttezza della premessa interpretativa che ha condotto i rimettenti ad impugnare la norma per violazione degli artt. 3 e 53 Cost.
 
7.3.- Le principali censure dei rimettenti individuano nella misura in questione un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini. L'intervento riguarda, infatti, i soli pensionati, senza garantire il rispetto dei principi fondamentali di uguaglianza a parità di reddito, attraverso una irragionevole limitazione della platea dei soggetti passivi, divenuta peraltro ancora più evidente, in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'analogo prelievo di cui al comma 2 dell'art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 (sentenza n. 223 del 2012).
 
Così correttamente individuato il rapporto di comparazione fra soggetti titolari di trattamenti pensionistici erogati da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie e tutti gli altri titolari di redditi, anche e non solo da lavoro dipendente, come reso palese nelle ordinanze nn. 54 e 55 del 2013, la questione, come con la pronuncia n. 223 del 2012, va scrutinata in riferimento al contrasto con il principio della "universalità della imposizione" ed alla irragionevolezza della sua deroga, avendo riguardo, quindi, non tanto alla disparità di trattamento fra dipendenti o fra dipendenti e pensionati o fra pensionati e lavoratori autonomi od imprenditori, quanto piuttosto a quella fra cittadini.
 
Va infatti, al riguardo, precisato che i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell'osservanza dell'art. 53 Cost., il quale non consente trattamenti in pejus di determinate categorie di redditi da lavoro.
 
Questa Corte ha, anzi, sottolineato (sentenze n. 30 del 2004, n. 409 del 1995, n. 96 del 1991) la particolare tutela che il nostro ordinamento riconosce ai trattamenti pensionistici, che costituiscono, nei diversi sistemi che la legislazione contempla, il perfezionamento della fattispecie previdenziale conseguente ai requisiti anagrafici e contributivi richiesti.
 
A fronte di un analogo fondamento impositivo, dettato dalla necessità di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha scelto di trattare diversamente i redditi dei titolari di trattamenti pensionistici: il contributo di solidarietà si applica su soglie inferiori e con aliquote superiori, mentre per tutti gli altri cittadini la misura è ai redditi oltre 300.000 euro lordi annui, con un'aliquota del 3 per cento, salva in questo caso la deducibilità dal reddito.
 
La giurisprudenza di questa Corte ha precisato che «la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)» (sentenza n. 341 del 2000).
 
Il controllo della Corte in ordine alla lesione dei principi di cui all'art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., non può, quindi, che essere ricondotto ad un «giudizio sull'uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell'imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell'entità dell'imposizione» (sentenza n. 111 del 1997).
 
In relazione agli interventi di stabilizzazione della finanza pubblica, nel cui contesto si colloca la disposizione in esame, questa Corte ha evidenziato la sostanziale coincidenza dei prelievi tributari posti in comparazione, ritenendo irragionevole il diverso trattamento fra dipendenti pubblici e contribuenti in generale (sentenza n. 223 del 2012).
 
Anche in questo caso, è necessario analogamente rilevare l'identità di ratio della norma oggi censurata rispetto sia all'analoga disposizione già dichiarata illegittima, sia al contributo di solidarietà (l'art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) del 3 per cento sui redditi annui superiori a 300.000 euro, quest'ultimo assunto anche quale tertium comparationis.
 
Al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, il legislatore ha imposto ai soli titolari di trattamenti pensionistici, per la medesima finalità, l'ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura, attraverso una ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi.
 
Va pertanto ribadito, anche questa volta, quanto già affermato nella citata sentenza n. 223 del 2012, e cioè che tale sostanziale identità di ratio dei differenti interventi "di solidarietà", determina un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita, «foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un "universale" intervento impositivo». Se da un lato l'eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è suscettibile di consentire il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano, dall'altro ciò non può e non deve determinare ancora una volta un'obliterazione dei fondamentali canoni di uguaglianza, sui quali si fonda l'ordinamento costituzionale.
 
Nel caso di specie, peraltro, il giudizio di irragionevolezza dell'intervento settoriale appare ancor più palese, laddove si consideri che la giurisprudenza della Corte ha ritenuto che il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita (fra le altre sentenza n. 30 del 2004, ordinanza n. 166 del 2006); sicché il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro.
 
Va, quindi, pronunciata l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, comma 22-bis, del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, come modificato dall'art. 24, comma 31-bis, del d.l. n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011.
 
per questi motivi
 
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, come modificato dall'articolo 24, comma 31-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 giugno 2013.

 

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