La questione relativa alla cumulabilità dell'indennità di maternità dovuta alle libere profesisoniste dagli enti di previdenza di categoria con quella eventualmente dovuta dall'Inps in relazione a diversa attività di lavoro contestualmente svolta
Nei sistemi di previdenza dei liberi professionisti, è previsto il diritto all'indennità di maternità in favore delle libere professioniste. L'art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001 prevede che tale indennità sia dovuta per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi successivi alla stessa e che sia corrisposta in misura pari all'80 per cento di cinque dodicesimi del solo reddito professionale percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello dell'evento. L'art. 70 prevede poi una misura massima e minima dell'indennità.
L'art. 71 prevede, poi, alcune condizioni per il riconoscimento del diritto stabilendo che l'indennità sia corrisposta "indipendentemente dall'effettiva astensione dall'attività, dal competente ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza in favore dei liberi professionisti, a seguito di apposita domanda presentata dall'interessata a partire dal compimento del sesto mese di gravidanza ed entro il termine perentorio di centottanta giorni dal parto e che la domanda, in carta libera, debba essere corredata da certificato medico comprovante la data di inizio della gravidanza e quella presunta del parto, nonché dalla dichiarazione redatta ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, attestante l'inesistenza del diritto alle indennità di maternità di cui al Capo III, al Capo X e al Capo XI.
Quanto all'attestazione dell'inesistenza del diritto all'indennità di maternità di competenza dell'Inps, si è posta la questione se ciò comporti inevitabilmente il divieto di cumulo tra le due indennità o se tale cumulo sia invece consentito.
La Suprema Corte, cassando la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la cumulabilità tra le due indennità, ha ritenuto che l'art. 71 comporti necessariamente l'esclusione dell'indennità a carico degli enti libero professionali in favore della professionista già goda dell'indennità a carico dell'Inps.
Tuttavia, residua qualche dubbio sulla compatibilità della soluzione ermeneutica sposata dalla Suprema Corte con l'art. 3 della Costituzione qualora l'indennità a carico dell'ente libero professionale dovesse essere superiore rispetto a quella erogata dall'Inps.
In tale ipotesi si avrebbe il paradosso per cui una professionista che svolgesse la sola libera professione e che avesse un reddito di analogo importo percepirebbe, senza alcuna logica, un'indennità maggiore, a carico dell'ente libero professionale, di una professionista che si trovasse nelle medesime condizioni soggettive ed oggettive ma che, in più, fosse anche titolare di un'indennità (di minore importo) a carico dell'Inps in relazione ad una diversa attività di lavoro contestualmente svolta.
Cassazione civile, sez. lav., 15/04/2015, n. 7621
In materia di previdenza forense, in caso di mancato esercizio del potere di rettifica dei contributi versati dal professionista da parte della Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense, nel termine fissato dall'art. 20 della legge 20 settembre 1980, n. 576, gli anni non coperti da integrale contribuzione concorrono a formare l'anzianità contributiva e vanno inseriti nel calcolo della pensione, prendendo come base il reddito sul quale è stato effettivamente pagato il contributo.
...6.2. In particolare, la Corte ha escluso che la Cassa possa in ogni tempo incidere sul rapporto previdenziale, affermando che la rettificabilità senza limiti temporali della posizione previdenziale - contributiva dell'iscritto in tanto può essere esercitata in quanto specificamente prevista da una puntuale disposizione, ed ha aggiunto che l'ordinamento della Cassa non presenta traccia di una siffatta disposizione, con riferimento all'ipotesi di errore nella misura dei contributi accreditati. Al contrario, l'art. 20 citato offre un'indicazione in senso opposto, laddove attribuisce alla Cassa la facoltà di controllare, all'atto della domanda di pensione, la corrispondenza tra le dichiarazioni annuali dei redditi e le comunicazioni annualmente inviate dallo stesso iscritto, limitatamente agli ultimi dieci anni. Il che depone per l'esistenza di un limite temporale all'esercizio di tale potere in un'ottica di prevalenza dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici rispetto all'esigenza di far valere, senza limiti di tempo, la esatta corrispondenza della posizione contributiva-previdenziale alle regole disciplinanti la sua configurazione. Ciò a differenza di quanto è invece previsto dalla L. n. 88 del 1989, art. 52, a proposito delle gestioni affidate all'INPS, in ragione della diversa natura giuridica degli enti gestori, che giustifica una diversa disciplina in cui - per l'ente di gestione con personalità di diritto privato - si esalta il criterio dell'efficienza affidata alla responsabilità e diligenza del gestore, facendo salva per lo stesso la possibilità di rettifica in ogni tempo solo in presenza di fondamentali interessi pubblici quali quelli sottesi al divieto di esercizio professionale in regime d'incompatibilità (L. n. 319 del 1975, art. 2, comma 3, cit.).
6.3. Tali principi si attagliano, sia pure con gli adattamenti resi necessari dalla diversità della fattispecie, al caso in esame, in cui al momento della ammissione alla pensione di vecchiaia, disposta dalla Giunta esecutiva nella seduta del 29 aprile 2003, sono stati esclusi dal calcolo della pensione gli anni di contribuzione ed i relativi redditi professionali dichiarati negli anni 1966-1969 e 1971- 1974 a causa di una parziale omissione contributiva.
6.4. E' infatti evidente che l'esclusione degli anni di contribuzione e la conseguente rideterminazione dell'importo della pensione, in misura diversa ed inferiore rispetto a quanto comunicato dalla stessa Cassa allo I. in data 29/11/2002, è il risultato dell'esercizio tardivo del potere di controllo affidato alla Cassa dall'art. 20 citato, in quanto compiuto relativamente ad anni anteriori al decennio dalla domanda di pensione.
7. Non induce una diversa interpretazione l'argomento addotto dalla resistente, secondo cui il disposto della L. n. 576 del 1980, art. 2, che riconosce il diritto alla pensione di vecchiaia a coloro che abbiano compiuto almeno sessantacinque anni di età, dopo almeno trenta anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla Cassa, stia a significare che tanto la iscrizione quanto la contribuzione debbano essere effettive e, con particolare riferimento a quest'ultima, che questa debba essere esattamente quella dovuta, con la conseguenza che la parziale omissione ne imporrebbe la totale esclusione ai fini del calcolo.
7.1. Tale interpretazione contrasta sia con il tenore letterale della norma - l'aggettivo effettivo non è sinonimo di integrale, dal momento che esso non contiene alcun riferimento ad una misura - sia con la mancanza di una norma che sanzioni, con la perdita o la riduzione dell'anzianità contributiva e dell'effettività di iscrizione alla Cassa, il parziale pagamento dei contributi, ma prevede soltanto il pagamento di somme aggiuntive (in tal senso Cass., 10 aprile 2012, n. 5672; Cass., 2 dicembre 2013, n. 26962). In ogni caso, la tesi sostenuta dalla Cassa non è coerente con il sistema, dovendosi la norma in esame leggere nel contesto delle altre disposizioni, e precipuamente della L. n. 576 del 1980, art. 20, che attribuisce all'ente il potere di rettificare l'importo della pensione, richiedendo al professionista la documentazione necessaria, per effettuare gli opportuni controlli, entro un preciso limite di tempo, nonchè dell'art. 22, della legge cit., che attribuisce alla Cassa il potere di dichiarare inefficaci i soli contributi che cadono nel quinquennio precedente la data della verifica della mancanza di continuità dell'esercizio della professione forense (sul punto, Cass., sez. Un., n. 13289/2005, cit.).
7.2. Del pari è insufficiente a sostenere l'interpretazione propugnata dalla Cassa l'argomento per il quale, a seguire la soluzione indicata dalle pronunce n. 5672/2012 e n. 26962/2013, basterebbe il versamento di un minimo contributo ("numno uno") perchè il professionista si veda conteggiato l'intero anno di contribuzione, con conseguenti riflessi negativi sull'intera categoria dei professionisti iscritti, e ciò in aperta contraddizione con la "logica" della previdenza professionale, che è improntata a principi solidaristici: si tratta invero di un inconveniente dovuto, come già sottolineato nelle predette sentenze, alla mancanza, nell'ambito della legge professionale, di una disposizione che preveda espressamente l'annullamento della contribuzione versata e della relativa annualità in caso di parziale omissione. Esso è comunque superabile attraverso l'adozione di più rigorosi controlli sulle comunicazioni e sulle dichiarazioni inviate dagli iscritti, con i mezzi di cui la Cassa stessa dispone e nei limiti temporali fissati dal sistema della previdenza forense, i quali sono evidentemente dettati non solo a garanzia dell'ente, cui non possono affidarsi indagini su periodi lontani nel tempo per le oggetti ve difficoltà degli accertamenti, ma anche a tutela dell'assicurato, al fine di non rendere eccessivamente difficoltosa la prova dell'esattezza delle contribuzioni versate. Il tutto in un'ottica di prevalenza dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici rispetto a quella dell'esatta corrispondenza, senza limiti di tempo, della posizione contributiva - previdenziale alle regole disciplinanti la sua configurazione.
8. Infine, deve ritenersi inammissibile la produzione da parte della Cassa, con la memoria difensiva ex art. 378 c.p.c., del "Regolamento per la costituzione di rendita vitalizia in caso di parziale omissione di contributi per i quali sia intervenuta prescrizione", trattandosi di documento che non attiene alla nullità della sentenza o all'ammissibilità del ricorso o del controricorso (art. 372 c.p.c.). Del pari inammissibile è la questione riguardante l'applicabilità, alla fattispecie in esame, del detto regolamento, approvato con decreto ministeriale nel luglio del 2006 ed entrato in vigore "dal 1 giorno del mese successivo a quello di approvazione ministeriale", in quanto i fatti in esame sono caduti in epoca precedente all'entrata in vigore del detto regolamento. Peraltro, la questione difetta di autosufficienza, non essendovi traccia della stessa nella sentenza impugnata e non avendo la parte indicato in quale atto difensivo o verbale di causa ed in che termini essa sarebbe stata prospettata nelle precedenti fasi di merito.
9. Alla luce di queste considerazioni, il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata e rinviata alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, affinchè riesamini la fattispecie attenendosi al principio di diritto per cui, "in caso di mancato esercizio del potere di rettifica dei contributi versati dal professionista da parte della Cassa nel termine fissato dall'art. 20, L. cit., gli anni non coperti da integrale contribuzione concorrono a formare l'anzianità contributiva e vanno inseriti nel calcolo della pensione, prendendo come base il reddito sul quale è stato effettivamente pagato il contributo".