LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE LUCA Michele - rel. Presidente -
Dott. CELENTANO Attilio - Consigliere -
Dott. DE RENZIS Alessandro - Consigliere -
Dott. BANDINI Gianfranco - Consigliere -
Dott. MAMMONE Giovanni - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.N.P.A.F. - CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA FORENSE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA BOCCA DI LEONE 78, presso lo studio dell'avvocato LUCIANI Massimo, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
ricorrente –
contro
A.I.;
intimata
avverso la sentenza n. 191/05 della Corte d'Appello di MILANO, depositata il 04/04/05 r.g.n. 304/04;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 16/01/08 dal Consigliere Dott. DE LUCA MICHELE;
udito l'Avvocato CURZIO CICALA per delega LUCIANI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza ora denunciata, la Corte d'appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva accolto la domanda proposta da A.I. contro la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, per ottenere pronunce consequenziali alla declaratoria che l'indennità di maternità a carico della Cassa, alla quale ha diritto, deve essere commisurata - all'intero ammontare del proprio "reddito percepito e denunciato ai fini fiscali" (ai sensi dell'art. 70 T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, applicabile ratione temporis), e non già soltanto alla parte di reddito professionale soggetta al contributo del dieci per cento (di cui alla L. 20 settembre 1980, n. 576, art. 10, comma 1, lett. a), che costituisce la base di calcolo della retribuzione pensionabile (di cui alla stessa L. 20 settembre 1980, n. 576, art. 2, comma 2) - essenzialmente in base ai rilievi seguenti:
- la specifica disposizione in materia (D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, cit.) ha "richiamato genericamente (il) concetto di reddito, ma ha puntualizzato (.....), per un verso, rifacendosi al reddito senza aggettivi e non al reddito professionale (come ha invece fatto successivamente: L. n. 289 del 2003, art. 1, comma 1, lett. a), (che) ha voluto comprendere qualsiasi utilità economica percepita, (e), per un altro verso, richiedendo la denuncia ai fini fiscali, ha escluso la computabilità di somme sottratte al fisco, (mente) si è disinteressat(a) dell'assoggettamento (.....) a contribuzione previdenziale ed assistenziale (.....)";
- la questione di legittimità costituzionale della disciplina prospettata - sollevata dalla Cassa (in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 36 e 38 Cost.) - risulta, poi, manifestamente infondata, in quanto "l'indennità in questione ed il suo criterio di calcolo, che conduce a quantificarla in misura superiore, tutelano maggiormente, piuttosto che menomarli, i valori sottesi alle norme sopra richiamate (....), mentre (.....) si sottolinea come non risulti che il sistema previdenziale forense non sia economicamente in grado di far fronte alle varie esigenze degli assicurati".
Avverso la sentenza d'appello, la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense propone ricorso per Cassazione, affidato a due motivi ed illustrato da memoria.
L'intimata A.I. non si è costituita nel giudizio di Cassazione.
All'odierna udienza di discussione, il difensore della Casa ricorrente ha prodotto fotocopia di lettera inviatagli dalla stessa Cassa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso - denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto (D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, nel testo originario, precedente alla entrata in vigore della L. 15 ottobre 2003, n. 289), nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) - la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense censura la sentenza impugnata - per avere ritenuto che l'indennità di maternità a carico della Cassa, alla quale controparte ha diritto, deve essere commisurata all'intero ammontare del "reddito percepito e denunciato ai fini fiscali" dalla libera professionista, e non già soltanto alla parte di reddito professionale soggetta al contributo del dieci per cento - sebbene, "per il calcolo delle pensioni (.....), i redditi eccedenti il limite stabilito per la contribuzione obbligatoria al dieci per cento (siano) totalmente infruttuosi" (ai sensi degli artt. 2, 3, 4 e 5, in relazione alla L. 20 settembre 1980, n. 576, art. 10, comma 1, lett. a), in coerenza, peraltro, con il sistema della previdenza forense e con la costituzione.
Con il secondo motivo - denunciando vizio di motivazione ed illegittimità costituzionale del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, nel testo antecedente l'entrata in vigore della L. 15 ottobre 2003, n. 289 - la Cassa ricorrente censura, in subordine, la sentenza impugnata - per avere ritenuto che l'indennità di maternità a carico della Cassa, alla quale controparte ha diritto, deve essere commisurata all'intero ammontare del "reddito percepito e denunciato ai fini fiscali" dalla libera professionista, e non già soltanto alla parte di reddito professionale soggetta al contributo del dieci per cento - sebbene la questione di legittimità costituzionale - già sollevata dalla Cassa nel giudizio di merito - risulti, non solo rilevante, ma anche fondata, essenzialmente sulla base dei rilievi seguenti:
- la disciplina in materia di indennità di maternità per le libere professioniste - come interpretata dalla sentenza impugnata - commisura l'indennità stessa al reddito della professionista - senza imporre alcun massimale - sebbene, "in ragione della sua finalità (proteggere la maternità e gli interessi dei nascituri e dei minori), non (debba) e non (possa) essere equiparata al reddito della lavoratrice";
- nel difetto di sinallagma con la contribuzione, poi, la stessa indennità risulta, da un lato, finanziata a carico della solidarietà categoriale - per soddisfare l'interesse di chi non ha certo bisogno - e, dall'altro, "sottrae risorse ad altre prestazioni erogabili dalla cassa di appartenenza";
- che ne risulta la sostanziale equiparazione della indennità di maternità per le libere professioniste alla stessa indennità per le lavoratrici dipendenti - che, peraltro, è finanziata da contribuzione adeguata - anzichè a quella (in misura fissa e relativamente modesta) delle lavoratrici autonome, sebbene siano la "categoria senz'alto più affine" (Corte cost. n. 371 del 2003);
- tanto più s'impone la considerazione, ora prospettata, ove riconsideri che le libere professioniste hanno - rispetto alle lavoratrici subordinate - "un vantaggio supplementare, poichè non sino tenute all'astensione (dall'attività lavorativa)";
- "prova ulteriore e decisiva della incostituzionalità del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 70, commi 1 e 2, nel testo applicabile alla presente controversia, sta nella recente modificazione ad opera della L. 15 ottobre 2003, n. 289, art. 1" - che ha, tra l'altro, introdotto un massimale alla indennità di maternità per le libere professioniste - trattandosi di "scelta (......) imputabile alla consapevolezza che il legislatore ha avuto della necessità di porre rimedio alla incostituzionalità della normativa precedente", come è confermato dai lavori preparatori della stessa legge (riportati in ricorso).
Il ricorso non è fondato.
2. Invero l'indennità di maternità per le libere professioniste - a norma della specifica disposizione in materia, applicabile ratione temporis alla dedotta fattispecie (D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, comma 2, T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma della L. 8 marzo 2000, n. 53, art. 15, nel quale è confluito la L. 11 dicembre 1990, n. 379, art. 1, Indennità di maternità per le libere professioniste) - deve essere commisurata (nella percentuale incontroversa, stabilita contestualmente) al "reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda".
Peraltro il concorso degli assicurati - al finanziamento della stessa indennità - è stabilito (dall'art. 83, intitolato Oneri derivanti dal trattamento di maternità delle libere professioniste, dello stesso D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, nel quale sono confluiti la l.11 dicembre 1990, n. 379, art. 5, ed il comma 1, dell'art. 49, intitolato Riduzione degli oneri sociali e tutela della maternità, della l. 23 dicembre 1999, n. 488, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 200)), nei termini testuali seguenti:
"1. Alla copertura degli oneri derivanti dall'applicazione del Capo 12^, si provvede con un contributo annuo a carico di ogni iscritto a casse di previdenza e assistenza per i liberi professionisti. Il contributo è annualmente rivalutato con lo stesso indice di aumento dei contributi dovuti in misura fissa di cui alla L. 3 giugno 1975, n. 160, art. 22, e successive modificazioni.
2. A seguito della riduzione degli oneri di maternità di cui all'articolo 78, alla ridefinizione dei contributi dovuti si provvede con i decreti di cui al comma 5 dell'art. 75, sulla base di un procedimento che preliminarmente consideri una situazione di equilibrio tra contributi versati e prestazioni assicurate.
3. I Ministri del lavoro e della previdenza sociale e del tesoro, accertato che le singole casse di previdenza e assistenza per i liberi professionisti abbiano disponibilità finanziane atte a far fronte agli oneri derivanti dalla presente legge, possono decidere la riduzione della contribuzione o la totale eliminazione di detto contributo, sentito il parere dei consigli di amministrazione delle casse".
3. Ne risulta - in materia di indennità di maternità perle libere professioniste, appunto -non solo la disciplina della base di calcolo - che forma oggetto di questa controversia - ma anche del concorso degli assicurati al finanziamento dell'indennità.
La disciplina prospettata pare, quindi, sufficiente - per decidere la presente controversia - senza fare ricorso - come, invece, pretende la Cassa ricorrente - alla normativa (di cui art. 10 e, rispettivamente, art. 2, comma 2, nonchè della L. 20 settembre 1980, n. 576, artt. 3, 4 e 5, Riforma del sistema previdenziale forense), che riguarda, bensì, la stessa Cassa, ma ha per oggetto, tuttavia, le materie - affatto diverse - della retribuzione imponibile e della contribuzione - a fini pensionistici - nonchè della retribuzione pensionabile.
4. Intanto il "reddito percepito e denunciato ai fini fiscali" è previsto (D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, comma 2) - quale base di calcolo, appunto, dell'indennità di maternità per le libere professioniste - a prescindere non solo dalla natura e forma di esercizio dell'attività professionale, includendone, quindi, anche la natura mista, professionale e di impresa (come, ad esempio, nel caso di farmacista titolare di farmacia).
- secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine le sentenze n. 1102/2005, 19130/2003, 15222/2000, 5221/1999; in senso contrario, pare l'isolata Cass. n. 12260/2005, che riposa, tuttavia, sull'asserito "elemento chiarificatore" del sopravvenuto dalla L. n. 289 del 2003, art. 1, a prescindere dalla "necessità di accertare se tale modifica sia di natura interpretativa, con conseguente sua retroattività, o meramente innovativa": sulla portata innovativa della disposizione sopravvenuta, vedi infra) - ma anche dalla astensione della professionista, dalla stessa attività, durante i periodi che risultano coperti dall'indennità (vedi Corte Cost. n. 3 del 1998; Cass. n. 11817, 7447, 612/1999).
5. Nè la prospettata interpretazione della disposizione in esame (D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, comma 2), risulta in contrasto con la costituzione (art. 3, 32 e 37 Cost.) - secondo la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 3 del 1998, cit.) - ancorchè ne possa derivate, addirittura, la duplicazione del reddito (da indennità, appunto, e da lavoro) - per quel che qui interessa (vedi infra) - nella ipotesi di prosecuzione dell'attività professionale, durante i periodi coperti dall'indennità di maternità.
Infatti non sussiste, da un lato, violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) - stante la non comparabilità delle situazioni poste a raffronto - in quanto la netta differenza tra lavoro subordinato e lavoro autonomo non consente, in linea generale, di ritenere "gli strumenti di tutela (....) per l'uno (.....) automaticamente applicabili anche all'altro "e - con riferimento specifico alla tutela della maternità - "il diverso sistema di autogestione dell'attività consente alle donne professioniste di scegliere liberamente modalità di lavoro tali da conciliare le esigenze professionali con il prevalente interesse del figlio" (così, testualmente, Corte Cost. n. 3 del 1998, cit.).
D'altro canto, la tutela costituzionale (art. 32) del diritto alla salute della donna e del bambino - che costituisce la funzione ratio), appunto, della tutela della maternità - "non è vulnerata dall'esistenza di una norma che, per una particolare categoria di lavorataci, stabilisce una protezione complessivamente adeguata alle peculiari caratteristiche della categoria medesima" - secondo la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 3 del 1998, cit.) - in quanto, "per assolvere in modo adeguato alla funzione materna, la libera professionista non deve essere turbata da alcun pregiudizio alla sua attività professionale, (all'uopo) lasciando che la lavoratrice svolga detta funzione familiare conciliandola con la contemporanea cura degli interessi professionali non con fuggenti col felice avvio della nuova vita umana, (mentre) la probabile diminuzione del reddito, a motivo della sospensione o riduzione dell'attività lavorativa, non incide, comunque, sulla predetta necessaria serenità, se compensata dal sostegno economico proveniente dalla solidarietà della categoria cui la donna appartiene".
Il parametro costituzionale (art. 37) della parità retribuiva tra donne ed uomini, infine, "attiene soltanto alla tutela del lavoro subordinato, restando del tutto estraneo al lavoro autonomo ed a quello dei liberi professionisti" (oltre la sentenza n. 3 del 1998 della Corte Costituzionale, cit., vedine la sentenza n. 181 del 1993).
6. Peraltro la stessa interpretazione della disposizione in esame (D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, comma 2) risulta presupposta dalle modificazioni, che - con disposizioni innovative e non già di interpretazione autentica (vedi Cass. n. 1102/2005, cit., 26568/2007) - ne risultano successivamente introdotte (dalla L. 15 ottobre 2003, n. 289, art. 1, comma 1, lett. a e b, Modifiche al art. 70 del T.U. di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, in materia di indennità di maternità perle libere professioniste).
Allo scopo di "chiarire, senza possibilità di equivoci, che il reddito da prendere a riferimento per il calcolo dell'indennità è solo quello professionale con esclusione di quanto eventualmente percepito per altre attività svolte (come, ad esempio, proventi patrimoniali, redditi d'impresa, eccetera)" - emergente, univocamente, dai lavori preparatori della stessa legge (n. 289 del 2003, cit.) - ne risulta apportata, infatti, la modificazione (al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, comma 2, appunto) del tenore letterale seguente:
"a) al comma 2, le parole: "del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali" sono sostituite dalle seguenti: "del solo reddito professionale percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo", e le parole: "della domanda" sono sostituite dalle seguenti: "dell'evento".
Allo scopo - parimenti emergente dagli stessi lavori preparatori - di colmare la lacuna - che "riguarda la mancanza di un tetto massimo per l'indennità (di maternità) da corrispondere alla libera professionista" - ne risulta introdotta, poi, questa modificazione ulteriore (al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, comma 2, appunto):
"b) dopo il comma 3, è aggiunto il seguente:
"3-bis. L'indennità di cui al comma 1 non può essere superiore a cinque volte l'importo minimo derivante dall'applicazione del comma 3, ferma restando la potestà di ogni singola cassa di stabilire, con delibera del consiglio di amministrazione, soggetta ad approvazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, un importo massimo più elevato, tenuto conto delle capacità reddituali e contributive della categoria professionale e della compatibilità con gli equilibri finanziari dell'ente".
Entrambe le modificazioni prospettate, all'evidenza, presuppongono il testo originario della disposizione in esame (del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, comma 2) - nella interpretazione che ne è stata proposta - al quale le modificazioni stesse risultano apportate.
7. Alla luce delle conclusioni raggiunte, la sentenza impugnata non merita, quindi, le censure, che le vengono mosse dalla Cassa ricorrente.
La misura integrale del reddito di riferimento - alla quale pare limitata la presente controversia - risulta, infatti, imposta - quale base di calcolo, appunto, dell'indennità di maternità per le libere professioniste - dalla disposizione in esame (D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, comma 2), nella interpretazione che ne è stata proposta.
Anzi la limitazione della base di calcolo - ad una parte soltanto del reddito di riferimento - non trova riscontro nella disposizione medesima (D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, comma 2) - nè, in genere, nella disciplina - in tema, appunto, di indennità di maternità per le libere professioniste.
Infatti la contraria conclusione della Cassa ricorrente riposa, esclusivamente, sulla normativa (di cui agli artt. 10 e, rispettivamente, art. 2, comma 2, nonchè artt. 3, 4 e 5 della L. 20 settembre 1980, n. 576, cit.), che - come è stato anticipato (vedi 3) - riguarda, bensì, la stessa Cassa, ma ha per oggetto, tuttavia, le materie - affatto diverse - della retribuzione imponibile e della contribuzione - a fini pensionistici - e della retribuzione pensionabile.
Non resta, quindi, che ribadire la palese arbitrarietà del ricorso a tale normativa.
Infatti la disciplina specifica (di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, comma 2, e art. 83) - in materia di indennità di maternità per le libere professioniste, appunto - non presenta lacune, per quanto si è detto, in quanto ne forma oggetto - per quel che qui interessa - non solo la base di calcolo - ma anche il concorso degli assicurati al finanziamento - della stessa indennità.
8. Nè l'inclusione dell'intero reddito di riferimento - nella base di calcolo, appunto, dell'indennità di maternità per le libere professioniste - si pone in contrasto con la costituzione.
La manifesta infondatezza, infatti, della riproposta questione di legittimità costituzionale (del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70, nella interpretazione proposta dalla sentenza impugnata e, per quanto si è detto, condivisa da questa Corte) risulta - sia pure limitatamente ai parametri costituzionali di riferimento (artt. 3, 32 e 37 Cost.) di quella pronuncia di rigetto - dalla precedente sentenza della Corte Costituzionale (n. 3 del 1998, cit.), che ha sostanzialmente legittimato - sul piano costituzionale, appunto - la stesa duplicazione del reddito (da indennità, appunto, e da lavoro) - all'evidenza, ben più elevata rispetto all'intero reddito, che qui interessa - nella ipotesi, allora considerata, di prosecuzione dell'attività professionale, durante i periodi coperti dall'indennità di maternità.
Quanto, poi, al parametro costituzionale non dedotto in quella sede (art. 38 Cost., comma 2), il diritto alla previdenza - che ne risulta garantito - non pare, all'evidenza, vulnerato dall'asserito eccesso di tutela dello stesso diritto, che - secondo la prospettazione della Cassa ricorrente - deriverebbe dall'inclusione - nella base di calcolo dell'indennità di maternità per le libere professioniste - dell'intero reddito di riferimento.
Peraltro il contributo degli assicurati al finanziamento dell'indennità di maternità per le libere professioniste (di cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 83) - affatto ignorato dalla stessa Cassa ricorrente - ne priva di qualsiasi fondamento le denunce - di dubbia rilevanza, peraltro, sul piano costituzionale - concernenti, da un lato, una sorta di abuso della solidarietà categoriale e, dall'altro, esigenze di equilibrio del bilancio della Cassa (a prescindere, ovviamente, da qualsiasi valutazione, circa le condizioni effettive dello stesso bilancio, che esula dallo scrutinio di Questa Corte).
Tanto basta per rigettare il ricorso, perchè infondato (alle stesse conclusioni sembra pervenire, tuttavia, la recente sentenza di questa Corte n. 26568 del 17 dicembre 2007, cit., sia pure all'esito di un iter argomentativo parzialmente diverso).
9. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.
La Cassa ricorrente, tuttavia, non può essere condannata alla rifusione delle spese di questo giudizio di Cassazione, in base alla regola della soccombenza (art. 385 c.p.c., comma 1, in relazione all'art. 91 c.p.c.), in quanto l'intimata non si è costituita, nè ha svolto altra attività defensionale nello stesso giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; Nulla per spese di questo giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2008
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