Cassazione civile sez. III 09 aprile 1998 n. 3679

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott.    Enzo  MERIGGIOLA     Presidente
Dott.   Giovanni Silvio   COCO   Rel. Consigliere
Dott.    Michele           LO PIANO    Rel. Consigliere  
Dott.   Giovanni Battista PETTI        Rel. Consigliere
Dott.   Bruno             DURANTE      Rel. Consigliere  

ha pronunciato la seguente

SENTENZA


sul ricorso proposto da:
FRACASSI CLAUDIO NQ DIRETTORE RESPONSABILE  SETTIMANALE  AVVENIMENTI, FRATANGELO  RAFFAELE   legale   rappresentante   della   SPA   Libera Informazione Editrice, GAMBINO MICHELE, elettivamente domiciliati  in ROMA VIA MIGIURTINIA  36,  presso  lo  studio  dell'avvocato  ALFREDO GALASSO, che li difende, giusta delega in atti;

Ricorrenti

Contro

RENDO MARIO, elettivamente domiciliato in ROMA C.SO  V.  EMANUELE  II 326, presso lo  studio  dell'avvocato  RENATO  SCOGNAMIGLIO,  che  lo difende, giusta delega in atti;

Controricorrente

avverso la sentenza n. 2232-95 della Corte d'Appello di ROMA,  emessa il 08-11-94 e depositata il 26-06-95 (R.G. 599-93);

udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del 21-10-97 dal Consigliere Dott. Giovanni Silvio COCO;
udito l'Avvocato Renato SCOGNAMIGLIO;
udito il P.M. in persona del  Sostituto  Procuratore  Generale  Dott. Aurelio GOLIA che ha concluso per l'accoglimento del primo motivo del ricorso e l'assorbimento del secondo motivo.

Svolgimento del processo

1) In data 26.6.1990, il sig. Mario Rendo, deducendo che:
il settimanale Avvenimenti stampato dalla Libera informazione Editrice S.p.A. aveva pubblicato un articolo a firma del giornalista Dott. Mario Gambino dal titolo "Duecento giorni a Palermo: perché la mafia ha ucciso" che gli aveva arrecato un gravissimo e ingiusto danno, patrimoniale e non patrimoniale;

ha citato davanti al Tribunale di Roma il Gambino e la Società editrice, chiedendo la loro condanna in solido al risarcimento dei danni.

Il Tribunale, decidendo nel contraddittorio tra le parti, ha condannato, con sentenza resa in data 23.6.1992, i convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale liquidato nella somma di L. 20.000.000.

La Corte d'Appello di Roma ha rigettato il gravame proposto dal Gambino e dalla società editrice e, in accoglimento di quello incidentale proposto dal Rendo, ha determinato la misura del danno non patrimoniale nella somma di L. 50.000.000 con gli interessi legali dalla data della pronuncia di primo grado.

Avverso la sentenza di appello, il Fracassi e la società editrice hanno presentato ricorso in cassazione, affidato a due motivi, alla quale il Rendo resiste con controricorso e con memoria.

Motivi della decisione.

1) La sentenza di appello è stata motivata con i seguenti argomenti.

I convenuti avevano eccepito che: a) i fatti pubblicati nell'articolo (ritenuto diffamatorio dall'attore) avevano già precedentemente formato oggetto di una campagna di stampa da parte di altro periodico; b) una domanda di risarcimento dei danni avanzata dallo stesso Rendo per il danno causato dalle precedenti pubblicazioni era stata rigettata dal Tribunale di Catania.

Tali fatti però non valgono a dimostrare la buona fede dei responsabili della successiva pubblicazione. Infatti, il primo giudizio riguardava "una pubblicazione storicamente intervenuta sei anni prima rispetto alla seconda sulla base delle fonti all'epoca della vecchia pubblicazione acquisibili". Ma, negli anni intercorrenti tra le due pubblicazioni erano intervenuti fatti nuovi ed una "archiviazione, nei confronti del Rendo dei procedimenti che lo riguardavano... con esclusione di ogni suo coinvolgimento in fatti di mafia"; inoltre "non erano state indicate le fonti sicure che materierebbero la valutazione giornalistica obiettivamente diffamatoria risultante dalla seconda pubblicazione"; pertanto, si doveva confermare il giudizio del Tribunale "circa la piena ricorrenza dei presupposti per l'azione risarcitoria".

Più analiticamente, la sentenza d'appello ha ribadito che, per il lungo tempo trascorso tra le due pubblicazioni, l'autore di quella successiva aveva il dovere, per controbilanciare "gli effetti liberatori del trascorrere di un lungo periodo di tempo", di accertare l'esistenza di nuovi ipotetici rapporti e di nuove ipotetiche iniziative giudiziarie nei confronti del Rendo; invece era stata acquisita nel processo la certificazione della sua totale estraneità alle vicende a lui addebitate nell'articolo contestato.

Questo, mentre, da una parte, nulla riferiva sui fatti successivi, dall'altra ostentava l'acquisizione di nuove fonti di notizia invece mancante nella realtà.

Per tali considerazioni, la condotta del giornalista era caratterizzata dalla "cosciente e libera volontà di propagare notizie e commenti per la consapevolezza della loro attitudine a ledere l'altrui reputazione". Pertanto, essa era valutabile, sia pure in via incidentale, come integrante il reato di diffamazione, ovviamente atto a determinare responsabilità civili".

2) Secondo la sentenza di appello, la condanna al danno non patrimoniale doveva essere confermata per un ammontare maggiore, perché: a) l'articolo aveva un contenuto obiettivamente diffamatorio; b) la reputazione del danneggiato non era stata irreparabilmente compromessa da precedenti campagne di stampa nei suoi confronti, in modo da renderla non più degna di alcuna considerazione ai fini del ristoro morale preteso, anche tenendo conto che i fatti successivi avevano dimostrato che i precedenti attacchi non avevano alcun fondamento; c) il quantum del risarcimento si doveva stabilire in L. 50.000.000 che "rappresenta per un cittadino impegnato laboriosamente nel tessuto sociale il minimo del valore della rispettabilità generale della persona umana".

3) Con il primo motivo formulato per errata insufficiente e contraddittoria motivazione e per errata e insufficiente valutazione delle risultanze istruttorie il ricorrente censura l'impugnata sentenza nel punto in cui ha ritenuto "la completa estraneità del Rendo a fatti relativi a collusioni tra mafia ed imprenditoria catanese... della quale il Gambino dolosamente non avrebbe dato atto".

Tale estraneità secondo la sentenza di appello sarebbe comprovata da un certificato - attestante la non pendenza nei confronti del Rendo del maxi processo Greco+706 che invece risultava, ai fini della buona fede dell'articolista, inconferente e insostenibile, perché: nell'articolo contestato non si descrive alcun coinvolgimento del Rendo nel processo cui il certificato si riferiva, ma soltanto l'interessamento di Pio la Torre, in un'attività evidentemente non giudiziaria ma politica, per le attività imprenditoriali di Rendo e per i suoi contatti con gli ambienti mafiosi; quella certificazione, essendo antecedente alle sentenze che avevano rigettato la richiesta di risarcimento avanzata dal Rendo per le pubblicazioni precedenti non poteva costituire il fatto nuovo del quale il Gambino non avrebbe dolosamente tenuto conto nella stesura del secondo articolo. Peraltro le deposizioni di un collaborante (depositate dal Rendo) dalle quali risultava che egli non era colluso con la mafia era successiva all'articolo del Gambino.

Altre iniziative giudiziarie invece si basavano su ulteriori coinvolgimenti del Rendo in fatti di collusione mafiosa e di spartizione di appalti.

Per tali ragioni, risultando falsa ed errata la premessa consistente nella esclusione di ogni coinvolgimento del Rendo in fatti di mafia egualmente falsa ed errata è stata la conclusione che ne è stata tratta.

4) Secondo la pacifica e consolidata giurisprudenza di questo S.C. (cfr. Sentt. 150-1977; 90-78; 1968-85; 4871-95; 6041-97) la divulgazione di notizie che arrecano pregiudizio all'onere e alla reputazione deve, in base al diritto di cronaca, considerarsi lecita quando ricorrono tre condizioni: "la verità oggettiva della notizia pubblicata; l'interesse pubblico alla conoscenza del fatto (c.d. pertinenza); la correttezza formale dell'esposizione (c.d. continenza) (Sent. 6041-97, cit.).

Ai fini di accertare la verità della notizia pubblicata il giornalista ha l'obbligo, non solo di controllare l'attendibilità della fonte, ma anche di accertare e di rispettare la verità sostanziale di fatti rispetto alla notizia (sent. 4871-95, cit.).

La sentenza impugnata ha ulteriormente specificato il contenuto dei limiti del diritto di cronaca, aggiungendo quello dell'attualità della notizia, nel senso che non è lecito divulgare nuovamente, dopo un consistente lasso di tempo, una notizia che in passato era stata legittimamente pubblicata.

Non si tratta soltanto di una pacifica applicazione del principio della attualità dell'interesse pubblico alla informazione, dato che tale interesse non è strettamente collegato all'attualità del fatto pubblicato, ma permane finché resta o quando ridiventa attuale la sua rilevanza pubblica. Viene invece in considerazione un nuovo profilo del diritto di riservatezza recentemente definito anche come diritto all'oblio inteso come giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata.

Il principio è, in sè, ineccepibile. Ma, quando il fatto precedente per altri eventi sopravvenuti ritorna di attualità, rinasce un nuovo interesse pubblico alla informazione non strettamente legato alla stretta contemporaneità fra divulgazione e fatto pubblico che si deve contemperare con quel principio, adeguatamente valutando la ricorrente correttezza delle fonti di informazione.

La sentenza impugnata, per dimostrare la illiceità (civile) della seconda pubblicazione, non si è limitata a rilevare il tempo trascorso da quella precedente; ma ha aggiunto che, nel frattempo, erano sopravvenuti alcuni eventi per quello che la stessa sentenza descrive, la totale estraneità del Rendo al processo relativo ai più gravi fatti criminosi accaduti in Sicilia negli anni ottanta e una deposizione davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia dalla quale risultava che lo stesso Rendo non aveva ceduto alle intimidazioni mafiose in suo danno dai quali risultava l'esclusione di ogni suo coinvolgimento in fatti di mafia e che "era intervenuta archiviazione nei confronti del Rendo, dei procedimenti che lo riguardavano nelle vicende indicate nella pubblicazione": pertanto, la omessa verifica dei fatti successivi alla prima campagna di stampa, insieme alla "ostentazione di un'acquisizione di nuove fonti di notizia invece mancanti nella realtà" esclude la buona fede del Gambino e prova la sua cosciente volontà di diffamare.

Per dimostrare il vizio di motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente, come si è già esposto, ha dedotto che: a) i fatti in esame erano successivi alla seconda pubblicazione e pertanto non potevano essere conosciuti dal Gambino; b) altri fatti e altre iniziative giudiziarie smentiscono la estraneità del Rendo ad ogni collusione tra mafia e imprenditoria catanese.

Non è compito di questo S.C. rivedere, nel merito e attraverso l'esame di altri elementi probatori, il giudizio formulato sul punto della sentenza impugnata. Sono invece rilevanti sotto il profilo della coerenza logica e giuridica della motivazione le seguenti osservazioni: a) la sentenza impugnata ha attribuito fondamentale rilevanza alla estraneità del Rendo da ogni coinvolgimento affaristico mafioso, ma tale convincimento sembra desunto dai due soli fatti più volte esposti, senza l'ulteriormente approfondimento necessario per valutare la loro idoneità a giustificare un giudizio globale di estraneità, che si è esteso anche ad episodi diversi e alle relative valenze, anche non strettamente giudiziarie; b) posto che gli stessi fatti sono stati utilizzati per dimostrare la responsabilità del Gambino, anche sotto il profilo della esclusione della sua buona fede soggettiva, diventava logicamente determinante il rigoroso controllo delle date in cui i fatti nuovi erano accaduti, perché solo da quel tempo nasceva l'obbligo del giornalista di controllarne l'esistenza; invece, della stessa sentenza impugnata risulta che la deposizione davanti alla Commissione Antimafia era posteriore alla pubblicazione dell'articolo incriminato.

Dalle osservazioni svolte risulta che la sentenza impugnata ha seguito un metodo di indagine logicamente e giuridicamente ineccepibile per accertare l'attualità (al momento della seconda pubblicazione), sia dell'interesse pubblico alla informazione sui fatti pubblicati, sia delle fonti di informazione e del loro puntuale ed esauriente controllo. Ma, risulta carente e contraddittoria la motivazione svolta per pervenire al convincimento di totale estraneità del danneggiato ai fatti oggetto della seconda pubblicazione nonché al controllo e al dovere di conoscenza degli stessi fatti da parte dell'autore della seconda pubblicazione. In relazione a tali punti il primo motivo del ricorso è fondato e deve essere accolto (assorbito il secondo), con conseguente cassazione della sentenza impugnata con rinvio come in dispositivo.

p.q.m.

accoglie il primo motivo, assorbito il secondo; cassa e rinvia anche per le spese del giudizio di Cassazione ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma.

Così deciso in Roma, il 21.10.1997 

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