Cassazione civile sez. III 27 aprile 1998 n. 4285


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott.    Manfredo   GROSSI   Presidente
Dott.   Giovanni Silvio   COCO Consigliere
Dott.   Paolo   VITTORIA    Consigliere
Dott.  Vincenzo   SALLUZZO  Consigliere
Dott.   Luigi Francesco   DI NANNI   Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

SCADUTI SALVATORE, CAMERATA SCOVAZZO ROCCO, elettivamente domiciliati in ROMA VIA CARDINAL DE LUCA 22, presso  lo  studio  dell'avvocato  E SIGGIA, difesi dall'avvocato MARIO SERIO, giusta delega in atti;

Ricorrenti

contro

GREVI VITTORIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA  P.PINCIANA  6, presso lo studio  dell'avvocato  GIORGIO  DE  NOVA,  che  lo  difende unicamente agli avvocati MARCELLO FRANCO, MICHELE GIORGIANNI,  giusta delega in atti

Controricorrente

nonché contro

EREDI DI: STILLE UGO, ALEXANDER KAMENETZKY STILE, e  LUCY  KAMENETZKY STILE, elettivamente domiciliati in ROMA VIA P.PINCIANA 6, presso  lo studio dell'avvocato  MARCELLO  FRANCO,  che  li  difende  unitamente all'avvocato MICHELE GIORGIANNI, per procure speciali rispettivamente autenticate presso il Consolato Generale  d'Italia  in  New  York  il 27-2-96 (atto n. 207 - reg. 44-96) e  presso  il  Consolato  Generale d'Italia in Los Angeles giusta delega in atti;

Controricorrenti

avverso la sentenza n.  1599-95  della  Corte  d'Appello  di  MILANO, emessa il 2-5-95 depositata il 30-05-95; RG. 15916-94.

udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del 17-10-97 dal Consigliere Dott. Luigi Francesco DI NANNI;
udito l'avvocato SERIO MARIO;
udito l'avvocato GIORGIANNI MICHELE; udito il  P.M.  in  persona  del Sostituto  Procuratore  Generale  Dott.  Raffaele  PALMIERI  che   ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Salvatore Scaduti e Rocco Camerata, con atto del 22 marzo 1991, hanno convenuto in giudizio davanti al tribunale di Milano Vittorio Grevi e Michele Kamenetzky Stille, alias Ugo Stille, il primo quale autore di un articolo apparso sul quotidiano Il Corriere della Sera con il titolo "Un'ordinanza incredibile e scandalosa. Il vizio non è della legge, ma dei giudici", il secondo quale direttore del quotidiano, e ne hanno chiesto la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla pubblicazione dell'articolo, indicato come offensivo del loro onore e della loro reputazione.

Gli attori hanno dichiarato: che avevano svolto la funzione, rispettivamente, di presidente e di giudice a latere della Corte di assise di Palermo, la quale aveva disposto la rimessione in libertà di Michele e Giuseppe Greco, condannati in primo ed in secondo grado alla pena dell'ergastolo, avendo ritenuto esauriti i termini di durata massima della custodia cautelare previsti dal codice di procedura penale; che il Grevi aveva espresso considerazione negative sul provvedimento, andando al di là dei limiti del diritto di cronaca, tacendo circostanze necessarie per una serena ed obbiettiva valutazione del provvedimento giudiziario esponendoli a giudizi lesivi delle loro dignità anche professionale.

I convenuti, costituitisi in giudizio, hanno negato che nell'articolo ricorressero gli estremi della diffamazione ed hanno dichiarato che avevano esercitato il diritto di critica con riferimento ad un avvenimento che aveva colpito l'opinione pubblica.

2. La domanda degli attori è stata rigettata dal tribunale, il quale ha considerato che non era rilevante ai fini della decisione della controversia discutere delle opposte tesi giuridiche circa la legittimità del provvedimento giudiziario criticato ed ha rilevato: a) che nell'articolo il diritto di cronaca era stato esercitato in modo veritiero, perché era stato riferito che tutta la dottrina processual penalistica si era pronunciata in senso contrario alla soluzione adottata nel provvedimento giudiziario e non già in quello che la rimessione in libertà del Greco fosse un atto dovuto; b) che, benché l'articolo denotava un impulso critico "ab irato", si doveva considerare che la delicatezza della funzione del giudice non può essere invocata a schermo del controllo e della critica dell'opinione pubblica.

La decisione del tribunale è stata confermata dalla Corte di appello di Milano con sentenza del 30 maggio 1995.

3. Per la cassazione di questa sentenza Salvatore Scaduti e Rocco Camerata hanno proposto ricorso, articolato in due motivi.

Resistono con separati controricorsi Vittorio Grevi ed Alexander e Lucy Kamenetzky Stille, eredi di Ugo Stille.

Tutte le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1. Con il primo, secondo e terzo motivo del ricorso è denunciata, sotto diversi profili, violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione, dell'art. 2043 cod. civ., falsa applicazione dell'art. 21 della Costituzione e difetto o insufficienza della motivazione.

Attraverso queste censure, che si riferiscono sia alla posizione del Grevi, sia a quella dello Stille, i ricorrenti svolgono due gruppi di censure e sostengono che la Corte di Milano:

a) ha compiuto una lettura affrettata dell'articolo a firma di Vittorio Grevi, non ha rispettato il criterio del bilanciamento tra il loro diritto alla riservatezza e quello di cronaca, anche in relazione alla natura del provvedimento criticato, ha paradossalmente sostenuto che in nessun caso il magistrato può reagire contro una critica violenta ed infamante rivoltagli per un provvedimento da lui adottato (primo e terzo motivo);

b) non ha rispettato il principio di continenza nella valutazione delle espressioni usate (secondo motivo).

Questi motivi, logicamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente e sono infondati.

2.1. In tema di responsabilità per danni derivanti dalla lesione del diritto personale di riservatezza questa Corte ha già formulato il principio secondo il quale la valutazione del carattere diffamatorio o non di uno scritto o di altra manifestazione del pensiero si pone, per il giudice che deve adottarla, come valutazione di un fatto: falsificazione o manipolazione della considerazione che le qualità di una persona determinata hanno in un certo contesto sociale.

Nel compiere questa valutazione il giudice ha l'obbligo di dare una ragione sufficiente al suo convincimento. Egli è libero di scegliere il convincimento che ritiene più giusto, ma deve fondarlo rispettando i canoni metodologici che l'ordinamento pone in maniera espressa o implicita.

Questa scelta è verificata in questa sede di legittimità attraverso l'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. secondo il quale la decisione impugnata deve essere convenientemente motivata su tutti i punti decisivi della controversia.

Ciò comporta che il difetto di motivazione, la sua insufficienza o la sua contraddittorietà è l'unico motivo sindacatile in sede di legittimità e che è esclusa ogni rivalutazione del fatto; una rivalutazione, cioè, del convincimento che su questo si è formato nella coscienza di chi l'ha formulato.

Inoltre, quello che deve essere valutato non è il fatto dell'avvenuta alterazione dell'opinione sociale sull'onore di una determinata persona, ma il metodo seguito dal giudice del merito, ovvero le regole sul metodo del giudizio di fatto che è stato concretamente formulato per giungere alla soluzione criticata (sent. 22 gennaio 1996, n. 465).

2.2.1. Il primo gruppo di censure contenute nel ricorso, sostanzialmente, si riferisce all'esercizio del diritto di critica per come questo è stato inteso dalla sentenza impugnata: critica che le controparti hanno sempre invocato come scriminante la loro attività e che i ricorrenti intendono limitato nella sua portata quando si tratta di salvaguardare il diritto alla reputazione.

In generale la critica, compresa quella che si traduce in scritti, si risolve in una interpretazione di fatti, di comportamenti e di opere dell'uomo che, per sua natura, è necessariamente soggettiva, cioè corrispondente al punto di vista di chi la manifesta.

Naturalmente, anche il diritto di critica, come ogni diritto, deve essere esercitato entro i limiti oggettivi fissati dalla logica concettuale e dall'ordinamento positivo.

Nondimeno, da questo principio non si può trarre l'illazione che la critica sia sempre vietata quando può offendere la reputazione individuale ed occorre, quindi, andare alla ricerca di un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con l'interesse generale che non siano introdotte limitazioni alla libera formazione del pensiero costituzionalmente garantita.

Il bilanciamento sta nel fatto che la critica, diversamente dalla cronaca, soggiace al limite dell'interesse pubblico o sociale ad essa attribuibile quando si rivolge a soggetti che tengono comportamenti o svolgono attività che richiamano su di essi l'attenzione dell'opinione pubblica.

2.2.2. Con riferimento all'esercizio del diritto di critica, rivendicato dal Grevi, la Corte di appello di Milano ha premesso che la distinzione tra la critica lecita e l'ingiusta aggressione alla persona integrante diffamazione non può essere identificata con l'oggetto stesso della critica, nel senso che sarebbe lecito criticare un provvedimento, ma non il suo autore anche quando questi impersona la titolarità di un potere pubblico. Quindi ha esaminato la completezza dell'informazione rilevando che era veritiera l'affermazione che tutta la dottrina processuale penalistica si era pronunciata nel senso sostenuto dall'articolista, dando ragione del fatto che l'informazione non poteva ritenersi parziale e non obbiettiva: il precedente della Corte di cassazione, conforme alla tesi seguita dai giudici di Palermo e contrario alla tesi dell'articolista non "veniva affatto taciuto, ma costituiva, al contrario, uno degli obbiettivi polemici dell'articolista..." (testualmente dalla sentenza impugnata).

La Corte di Milano si è soffermata anche sul periodo conclusivo dell'articolo nel quale si sollevava il problema di sottoporre il giudice all'azione disciplinare nei casi in cui l'errore del provvedimento da lui adottato consista nella ingiusta liberazione di un imputato ed ha ritenuto che questo era un problema di equilibrio nell'amministrazione della giustizia.

Il Collegio ritiene che queste giustificazioni resistono alla censura dei ricorrenti di una lettura affrettata dell'articolo che li riguardava e, soprattutto, danno una corretta risposta al problema del bilanciamento degli interessi, come risulta dal fatto che la sentenza impugnata si è fatta espressamente carico del problema di verificare se la liceità della critica dovesse escludersi per il fatto che, oltrepassando il provvedimento giudiziario al centro della cronaca, avesse raggiunto e colpito le persone degli autori del provvedimento medesimo.

La risposta negativa sul punto si incentra sulla considerazione che, in un ordinamento democratico, le persone che rivestono cariche pubbliche non sono al riparo della critica, più di quanto non lo siano i provvedimenti da essi presi nell'esercizio delle loro funzioni.

Questa che è solo la premessa di un discorso più articolato (più avanti si pone in luce che le "critiche personali mosse ai magistrati della Corte Palermitana erano fondate sullo stesso provvedimento da essi emesso e, dunque, mediate da esso") esprime con chiarezza il convincimento di chi l'ha formulato e non può essere sindacato in questa sede per il solo fatto che abbia disatteso le aspettative degli attuali ricorrenti.

Sotto questo profilo, quindi, la sentenza si sottrae al giudizio negativo contenuto nel primo gruppo di censure: avere compiuto una lettura superficiale dell'articolo e non avere rispettato il bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e la manifestazione di quello di critica.

2.3.1 L'altro gruppo di censure, contenuto nel secondo motivo del ricorso, si riferisce al mancato rispetto del principio di continenza.

La continenza è una regola alla quale si deve conformare l'esercizio del diritto di cronaca, il quale si deve moderare sia nella maniera in cui si esprime (continenza formale), sia nel suo contenuto (continenza sostanziale).

Continenza formale è quella per cui l'esposizione dei fatti deve avvenire misuratamente. Essa coincide con i limiti al diritto di cronaca, la quale deve essere contenuta negli spazi strettamente necessari all'esposizione dei fatti. Bisogna, peraltro, considerare che le espressioni adoperate nella narrazione dei fatti non si possono fondare su parametri universali ed oggettivi, sicché la continenza formale deve essere verificata in stretta aderenza al contesto nel quale deve operare.

Continenza sostanziale è quella per la quale i fatti narrati debbono corrispondere a verità. Evidentemente non si può trattare di verità assoluta, ma di verità soggettiva, perché la cronaca di accadimenti ritenuti soggettivamente veri è il riflesso soggettivo del fatto che non ci sia stata narrazione di fatti immaginari.

Può anche accadere, peraltro, che la narrazione di fatti determinati (cronaca) sia esposta insieme alle opinioni (critiche) di chi la compie, in modo da costituire allo stesso tempo esercizio di cronaca e di critica.

In questi casi la valutazione della continenza (sostanziale e formale) non può essere condotta attraverso i soli criteri sopra indicati, che sono essenzialmente formali, ma si attenua per lasciare spazio all'interpretazione soggettiva dei fatti che sono raccontati e per svolgere le censure che si vogliono esprimere.

2.3.2. La Corte di Milano si è attenuta ai principi ora esposti quando ha chiarito come il ragionamento seguito dai primi giudici era stato frainteso dagli appellanti. La Corte di appello ha dichiarato che l'articolista non aveva inteso dimostrare l'esattezza della tesi contraria a quella contenuta nel provvedimento giudiziario, ma la sola veridicità della corrispondente affermazione contenuta nell'articolo.

Nel ragionamento del giudice del merito questo dimostrava che l'informazione data al pubblico, non solo era veritiera, ma era esposta in maniera corretta (formalmente e sostanzialmente "continente").

La conclusione è sicuramente esatta in base ai principi sopra indicati e, da questo punto di vista, la sentenza impugnata si sottrae alle critiche che sono state fin qui esaminate.

Quanto al profilo del difetto di motivazione contenuto nel motivo, il Collegio rileva che la sentenza impugnata ha dato corretta risposta al fatto che il giudizio di riprovazione dell'articolista fosse stato espresso nel limite della "civile esposizione dei fatti"; limite questo non oltrepassato dal fatto che la posizione contraria a quella esposta fosse stata indicata come erronea, insostenibile o nascente da superficialità o negligenza.

Basta leggere i seguenti punti della motivazione:

a) "il rispetto del limite di una civile esposizione dei fatti non è oltrepassato...... quando il tema della discussione è cosi alto da rendere del tutto giustificata la pretesa che, nella soluzione da dare al caso concreto, nessun errore sia commesso, e la misura dello studio, dell'approfondimento, della diligenza, ecc. sia assolutamente superiore a quella ordinaria".... ;

b) "qui si discute non della deontologia del magistrato, ma dei limiti del diritto di manifestazione del pensiero (ed) è del tutto ovvio che l'attenzione della pubblica opinione, e conseguentemente il livello della polemica, sia commisurato alla diretta incidenza che la decisione giudiziaria può avere in un ambito più vasto".

Queste sono giustificazioni della motivazione adottata che sono completamente in grado di svolgere la funzione della completezza e della logicità della motivazione già accennata nel corso di questa sentenza.

Pertanto, non sussiste neppure il vizio di motivazione.

3.1. Con il quarto motivo la sentenza impugnata è censurata per la parte riguardante la posizione di Ugo Stille.

I ricorrenti sostengono che nei confronti del direttore del giornale valgono le stesse censure che sono state svolte nei confronti dell'altro convenuto. La censura, per come è proposta, non pone l'obbligo di un'ampia motivazione e non è fondata.

3.2. Infatti, avere attribuito al contenuto dell'articolo redatto da Vittorio Grevi un significato non diffamatorio comportava che anche il direttore del quotidiano sul quale l'articolo era stato pubblicato fosse esente dalla responsabilità che gli attori gli attribuivano.

Da questo punto di vista, quindi, la posizione dello Stille non doveva essere esaminata nè separatamente, nè sotto profili diversi da quelli indicati per l'articolista.

4.1. Con il quinto motivo, che si riferisce ad entrambi i resistenti, è denunciata violazione dell'art. 91 cod. proc. civ. e difetto di motivazione.

I ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte di Milano ha fatto un cattivo uso del potere in ordine alla condanna alle spese, che non sarebbe giustificato perché nella sentenza si dà l'atto della violenza dell'attacco mosso con l'articolo in questione ai due magistrati attori".

Si tratta di censura inammissibile.

4.2. Quanto alla violazione di legge è appena il caso di precisare che all'esito del giudizio svoltosi innanzi alla Corte di Milano gli attuali ricorrenti sono risultati totalmente soccombenti.

Da questo punto di vista, allora, la sentenza impugnata si sottrae alle censure mosse con il ricorso, poiché il sindacato di questa Corte è ammissibile soltanto quando sia stato violato il divieto, sancito dall'art. 91 cod. proc. civ., di porre, anche in parte, le spese del processo a carico della parte totalmente vittoriosa (sent. 19 agosto 1987, n. 6961; 15 marzo 1990, n. 2103; 15 novembre 1994, n. 9597; 13 aprile 1995, n. 4234) ed a Salvatore Scaduti e Rocco Camerata non è stata riconosciuta la posizione di parte vittoriosa nel processo.

Sotto il secondo profilo la sentenza impugnata ugualmente si sottrae alla censura di difetto di motivazione, avendo la Corte del merito dato ampia giustificazione, attraverso il riferimento alla soccombenza, della decisione di condanna degli attuali ricorrenti alle spese del giudizio.

4. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato.

Le spese di questo giudizio possono essere interamente compensate tra le parti, ricorrendone giusti motivi.

p.q.m.

La Corte rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese di questo giudizio.

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 1997, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte Suprema di Cassazione. 

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