I maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli: le condotte "iperprotettive" che integrano il reato.
Articolo dell'Avv. Susanna Stoppani
penalista in Roma
Argomenti correlati:
Cass. Penale Sez. Un. n. 8413/2007 su art. 570 c.p. e pluralità di reati
Delitti contro la famiglia (artt. 556-574 c.p.)
Violazione degli obblighi di assistenza familiare
Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina
Lo ius corrigendi come causa di giustificazione
Le condotte che integrano il reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli alla luce della valutazione della recente Cassazione.
L’art, 572 c.p., si colloca nel titolo XI del libro secondo del codice panale vigente, nell’ambito dei delitti contro l’assistenza familiare. Per quanto sia opportuno riflettere sulla corretta collocazione della fattispecie, la quale prevede ipotesi di reato consumate anche al di fuori della sfera familiare, è opportuno chiarire l’interesse che soggiace a tale impostazione: il rapporto di affidamento di origine familiare o di altra origine che lega l’offeso del reato al soggetto agente. Alla base dei rapporti così qualificati vi è una presunzione di lealtà e correttezza e la sostanza comune è la presenza di soggetti sottoposti all’autorità ed altri depositari di tali poteri autoritativi. Per l’integrazione del fatto- reato è necessaria una plurimità di azioni, infatti, il reato è pacificamente qualificato come reato abituale, o a condotta plurima.
Le condotte che integrano il reato de quo sono plurime e non perfettamente identificate dal legislatore: ostentato e continuo disinteresse verso il coniuge od il minore od ancora condotte di disprezzo e scherno.
Si tratta nei fatti, di una valutazione affidata alla prudente discrezionalità del giudice, cui compete di valutare se ricorra un numero di fatti qualificati a realizzare un “sistema di comportamenti” idoneo a concretizzare il reato. In proposito la recentissima sentenza della Cassazione Penale, specifica ancora il campo di operatività della norma.
Cassazione penale sez. VI- 23 settembre 2011 n. 36503
"Integra il reato di maltrattamenti in famiglia la condotta della madre e del nonno di una bambina che mantengono un atteggiamento iperprotettivo nei confronti della piccola, tale da limitarne lo sviluppo della personalità e delle potenzialità, a prescindere da condotte pacificamente vessatorie e violente (nella specie, gli atteggiamenti tenuti dalla madre e dal nonno erano tesi a non far frequentare con regolarità la scuola, ad impedire la socializzazione, ad impartire regole di vita tali da incidere sullo sviluppo psichico del minore con conseguenti disturbi deambulatori e a prospettare la figura paterna come negativa e violenta, tanto da imporre alla bambina di farsi chiamare con il cognome materno)."
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
G.E., e G.G., rispettivamente madre e nonno materno del minore C.R. (nato il (OMISSIS)) ricorrono, a mezzo del loro comune difensore, avverso la sentenza 19 ottobre della corte d'appello di Bologna (che li ha condannati per il delitto di cui all'art. 572 c.p., confermando la decisione di condanna 17 maggio 2007 del G.U.P. del Tribunale di Ferrara), deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella decisione impugnata, nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati.
1) l'accusa e le conformi decisioni dei giudici di merito.
I G. (nonno materno e madre del minore C.R.), sono imputati: 1) del delitto p. e p. dall'art. 572 c.p., per aver, in concorso tra loro, quali conviventi con il minore C. R., nato il (OMISSIS), mediante atteggiamenti iperprotettivi nei confronti del minore medesimo, consistiti fra gli altri nel non far frequentare con regolarità la scuola allo stesso, nell'impedire la sua socializzazione (il minore ha conosciuto suoi coetanei solo in prima elementare), nell'impartire regole di vita tali da incidere sullo sviluppo psichico del minore con conseguenti disturbi deambulatori, prospettandogli, inoltre, la figura paterna come negativa e violenta tanto da imporgli di farsi chiamare con il cognome materno, sottoponendolo a tutte dette vessazioni, maltrattato il minore C.R.. Reato commesso in (OMISSIS) fino al mese di (OMISSIS).
Con sentenza 17 maggio 2007 del G.U.P. di Ferrara, all'esito di giudizio abbreviato, gli odierni ricorrenti sono stati dichiarati responsabili del reato ascritto e condannati alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ciascuno (pena base anni 3, in ragione della speciale gravità delle condotte e della loro prosecuzione per anni, ridotta ad anni 2 per le generiche ed ulteriormente come a dispositivo per la scelta del rito). Il G.U.P. ha negato la chiesta sospensione condizionale della pena, che è stata peraltro interamente condonata.
Con sentenza 19 ottobre 2010 la Corte di appello di Bologna su gravame degli imputati ha confermato le statuizioni del G.U.P. di Ferrara in data 17 maggio 2007.
Per i giudici di merito gli atti di maltrattamento, nei confronti del minore, convivente con la madre ed il nonno nella casa di questi, si sono materializzati:
a) in atteggiamenti iperprotettivi qualificati come "eccesso di accudienza", mantenuto e proseguito in età preadolescenziale, con imposizione di atti riservati all'età infantile, nonchè nell'esclusione del minore da attività anche didattiche istituzionali, inerenti la motricità;
b) in deprivazioni sociali (impedimento di rapporti con coetanei) e psicologiche (rimozione della figura paterna); condotte tutte contestate come commesse fino all'(OMISSIS).
Tali condotte, una volta accertate, sono state nel loro complesso valutate come concretamente idonee a ritardare gravemente nel minore sia lo sviluppo psicologico relazionale (con i coetanei e la figura paterna), sia l'acquisizione di abilità in attività materiali e fisiche, anche elementari (come la corretta deambulazione).
2.) i motivi di impugnazione.
Il ricorso è articolato in quattro diffusi motivi di doglianza, i primi dei quali attengono all'azione esecutiva e ai profili soggettivi del delitto di maltrattamenti, mentre l'ultimo riguarda l'entità della sanzione irrogata.
Con un primo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione in punto di affermazione della penale responsabilità, erronea applicazione della legge penale sostanziale, errata qualificazione giuridica del fatto, sotto il profilo dell'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p..
Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in punto di penale responsabilità, erronea applicazione della legge penale sostanziale, errata qualificazione giuridica del fatto sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p..
Con un terzo motivo si prospetta manifesta illogicità della motivazione in punto di responsabilità ex art. 572 c.p., per difetto del dolo.
Con un quarto motivo si evidenzia l'illogicità della motivazione posta a fondamento del trattamento sanzionatolo, con il riconoscimento di una condizione di supremazia del padre ricorrente sulla figlia, cui non è corrisposta una equa riduzione della sanzione, e a cui si è accompagnata una motivazione sulle condotte successive dei condannati desunta da una pronuncia di colpevolezza per fatti successivi e non coperta da giudicato.
3.) le ragioni della decisione di rigetto della Corte di legittimità.
Prima di esaminare analiticamente il tenore del gravame va precisato che nella verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte di secondo grado, tale decisione non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza del primo giudice, dal momento che entrambe risultano sviluppate e condotte secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti.
La difesa degli imputati sostiene che la Corte d'Appello di Bologna ha confermato la sentenza di prime cure, maturando un giudizio di diritto che non può essere condiviso, in quanto, per confermare la decisione del Giudice di primo grado, essa ha finito per rimodellare la struttura del reato di maltrattamenti, stravolgendone la natura e gli elementi costitutivi, al fine di rendere applicabile la predetta norma sostanziale a condotte che non possono rientrare, invece, nell'ambito dell'elemento oggettivo richiesto dalla norma in esame.
2.1) l'elemento oggettivo del reato e la conforme azione esecutiva nella condotta dei ricorrenti.
Il ricorrente, premesso l'assunto (pacifico) che i maltrattamenti di cui si sarebbero resi responsabili i G. consisterebbero sostanzialmente in atteggiamenti di iperprotezione e di ipercura, prospetta con il primo motivo che tali condotte andrebbero considerate espressione di fenomeni patologici che non possono rientrare nel concetto di x maltrattamenti, così come inteso dalla norma in esame, in quanto prive di una chiara connotazione negativa.
Quali esempi tipici della materialità dei maltrattamenti, il ricorso indica: il consentire al minore di vivere in stato di abbandono in strada per chiedere l'elemosina; la ripetuta esposizione del minore a contesti erotici; l'utilizzo di mezzi e metodi trascendenti qualsiasi aspetto di liceità correttiva ed estranei a ogni plausibile scopo pedagogico formativo, sostanziati in percosse e punizioni umilianti e gratuite.
Si tratta ad avviso del difensore di condotte tutte che si qualificano per una chiara "connotazione negativa", talora violenta, talora subdolamente mortificante o ingiustificatamente punitiva, ma sempre e comunque negativa, come peraltro indica, inequivocabilmente, la stessa rubrica dell'art. 572 c.p..
La conclusione dell'argomentare difensivo è quindi nel senso che - al contrario- gli atteggiamenti di iperprotezione o di ipercura, lungi dal costituire i maltrattamenti sanzionati dalla norma, integrano la ripetizione di condotte che nascono come positive e certo ispirate da intenzioni lodevoli, salvo poi riverberare effetti negativi su chi tali condotte subisce a causa della loro eccessiva e patologica esasperazione.
Da ciò deriverebbe che l'ipercura e l'iperprotezione, addebitate ai G., non possano costituire l'elemento oggettivo del reato di maltrattamenti, atteso che tra le due condotte, quella di chi maltratta e quella di chi ipercura o iperprotegge, esiste, con tutta evidenza, un'incompatibilità strutturale insanabile.
Ritiene il Collegio che lo sforzo del difensore, pur apprezzabile per il suo sviluppo dialettico, parta da una "posizione riduttiva" nella lettura del dettato normativo, dimenticando che nel reato di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p., l'oggetto giuridico non è costituito solo dall'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, connotati secondo il lessico del ricorrente da una "chiara connotazione negativa", ma anche dalla tutela dell'incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma (Cass. pen. sez. 6, 37019/2003 Rv. 226794), interessate al rispetto integrale della loro personalità e delle loro potenzialità nello svolgimento di un rapporto, fondato su costruttivi e socializzanti vincoli familiari aperti alle risorse del mondo esterno, a prescindere da condotte pacificamente vessatorie e violente.
In tale quadro, poco conta la "soglia di sensibilità del minore vittima", la quale, non solo per il grado di sviluppo psico-fisico della persona offesa, ma, soprattutto, perchè essa, oggettivamente disafferenziata dai contesti di riferimento ("gruppo dei pari di età"), di necessità, non può disporre di standard di peso della negativa e deteriore realtà in cui è costretta a vivere.
In tale quadro si appalesa quindi irrilevante il riferito "stato di benessere del bambino"r tenuto conto che, non a caso, in tutti i sistemi di civiltà evoluta, lo Stato può verificare in modo intrusivo le "realtà di disagio anomalo" nella famiglia e le loro cause umane, imponendo prescrizioni ai familiari, sino alla decadenza dalla potestà, all'allontanamento, e allo stato di adottabilità del minore stesso.
Nè miglior sorte va riservata al secondo profilo critico del ricorso, prospettato per negare la materialità dei maltrattamenti, sulla base del rilevo che il reato esige - come risultato - che gli atti di maltrattamento (lesivi dell'integrità fisica o morale, della libertà o del decoro della vittima) siano tali da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e la persona offesa, con conseguente necessità, ad avviso del ricorrente, di un rapporto diretto tra colui che pone in essere le condotte di maltrattamento ed il soggetto che, in ragione di tali condotte, trova sofferenza e disagio ed, ancora, che vi sia un rapporto causale diretto tra maltrattamento da un lato ed il dolore ed il disagio dall'altro, realtà che nella vicenda sarebbero escluse dal manifestato benessere del minore di vivere iperaccudito nella realtà familiare.
La conclusione della difesa soffre dello stesso vizio di lettura della precedente doglianza in quanto pone, come crinale e "discrimen" del maltrattamento, lesivo dei processi di crescita psicologica e fisica del minore, il grado di percezione del maltrattamento stesso ad opera della vittima minorenne.
Non è chi non veda l'insostenibilità dell'assunto che fa dipendere Soggettiva sussistenza della condotta illecita dalla "variabile soglia di sensibilità della vittima", che, in quanto minore esige efficace tutela, anche contro la sua stessa infantile limitata percezione soggettiva.
La critica va quindi rigettata, senza dimenticare la regola che in ogni caso, a prescindere dalla minore età della vittima, il reato de quo mai può essere scriminato dal consenso dell'avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni sub-culturali o, come nella specie, scelte e stili pedagogici obsoleti, od in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'art. 2 Cost., i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli articoli 29-31 Cost. (cfr. Cass. pen. sezione.6, 46300/08, Fhami; Cass. Penale sez. 6^, 3398/1999, Rv. 215158, Bajarami). Quanto al tema della "deprivazione psicologica" e quindi della "rimozione della figura paterna", sostiene il difensore che non sarebbe emersa alcuna prova certa in ordine all'asserito condizionamento psicologico, tanto più che l'avversione del minore nei confronti del padre, ad esito del giudizio di primo grado, era già stata temporalmente e causalmente collocata con riguardo al fortissimo trauma subito in occasione dei tentativi di allontanamento ed, in generale, all'iter doloroso cui il minore si sentiva sottoposto a causa dei pur nobili intenti del padre.
Il motivo, per come profilato, non supera la soglia dell'ammissibilità.
Nella specie, ci si trova di fronte a due sentenze, di primo e secondo grado, che concordano nell'analisi e nella vantazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che si salda perfettamente con quella precedente sì da costituire un unico complessivo corpo argomentativo, privo di lacune, sul punto della "rimozione della figura paterna" considerato che la sentenza impugnata, ha dato comunque congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza.
In conclusione l'esito del giudizio di responsabilità non può essere invalidato dalle prospettazioni alternative del ricorrente le quali si risolvono nel delineare una "mirata rilettura" di quegli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento della decisione, nonchè nella autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè illustrati come maggiormente plausibili, oppure perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta si è in concreto esplicata.
Il motivo va quindi respinto in tutte le sue articolazioni.
2.2) la sussistenza dei profili soggettivi del contestato delitto.
Con il secondo motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge in punto di penale responsabilità, erronea applicazione della legge penale sostanziale, errata qualificazione giuridica del fatto sotto il profilo dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p..
Con il terzo motivo si prospetta manifesta illogicità della motivazione in punto di responsabilità ex art. 572 c.p., per difetto del dolo.
I due motivi tra loro correlati vanno congiuntamente esaminati e valutati.
Il difensore, nel prendere atto che se può essere fonte di censura, o di rammarico, il modo in cui i G. recepiscono gli accadimenti, nonchè "la rigidità e la chiusura mentale che mostrano", sostiene che "non si può esigere che tale dato, ineliminabile e per così dire strutturale, cambi nel momento in cui tutta la famiglia si sente sotto attacco", circostanza peraltro che a suo avviso non varrebbe ad integrare il dolo richiesto dalla norma.
In buona sostanza ed in altre parole: l'assunto difensivo è che difetterebbe la seppur minima consapevolezza di creare disagio in Riccardo, in persone adulte e mature per le quali, osserva peraltro il Collegio, non è stata prospettata avanti ai giudici di merito alcuna questione di non-integrità dei processi di intelligenza e volontà.
L'argomento non regge.
Invero, se è ragionevole ritenere che, inizialmente, la diade "madre- nonno" possa aver agito in buona fede, sia pur secondo una falsa coscienza, nella scelta delle metodiche educative e nell'accurata attenzione nell'impedire contatti di ogni tipo al bambino, isolandolo nelle sicure "mura domestiche", tale profilo soggettivo non aveva più motivo di sussistere dopo i ripetuti sinergici interventi correttivi di una pluralità di esperti e tecnici dell'età evolutiva e del disagio psichico ed i conformi interventi dell'autorità giudiziaria.
La persistenza, ciò nonostante, delle metodiche di iperaccudienza e di isolamento, in palese violazione delle indicazioni e delle prescrizioni, talora imposte e talora pure concordate, segnala, al di là di ogni ragionevole dubbio e secondo massime di comune esperienza, la pacifica ricorrenza in capo agli accusati della intenzionalità che connota il delitto ritenuto nei termini correttamente ribaditi dai giudici di merito.
Il motivo va quindi rigettato.
2.3) il trattamento sanzionatorio.
Con un quarto motivo i ricorrenti evidenziano l'illogicità della motivazione, posta a fondamento del trattamento sanzionatorio, con il riconoscimento di una condizione di supremazia del padre ricorrente sulla figlia, cui non è corrisposta una equa riduzione della sanzione per la donna, ed alla quale si è comunque accompagnata una motivazione sulle condotte successive dei condannati, desunta da una pronuncia di colpevolezza per fatti successivi e non coperta da giudicato. Anche questo motivo non ha fondamento. Il trattamento sanzionatorio paritario risulta efficacemente argomentato, già in primo grado, con riferimento al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, attribuite al nonno per la sua incensuratezza ed alla G.E. (con precedenti) per il ruolo in sottordine rispetto al padre.
Quanto al richiamo alla prosecuzione della condotta illecita, utilizzato dalla corte distrettuale per ribadire "ad abundantiam" le formulate argomentazioni, in punto di conferma della sanzione, valorizzando in proposito anche il dispositivo di una sentenza di condanna per lo stesso illecito (decisione non definitiva ed acquisita agli atti in appello dalla parte civile), va rammentato che il principio di non colpevolezza di cui all'art. 27 Cost., comma 2, vieta di assumere appunto la "colpevolezza" a base di qualsivoglia provvedimento, fino a quando essa non sia stata definitivamente accertata, ma non vieta affatto di trarre elementi di valutazione sulla personalità dell'accusato dal fatto obiettivo della pendenza, a suo carico, di altri procedimenti penali. (Cass. pen. sez. 1, 4878/1997 Rv. 208342).
Bene pertanto di tale circostanza è stato fatto uso per valutare la personalità dei rei nell'esercizio del potere discrezionale nella determinazione della pena.
Il ricorso pertanto risulta infondato, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonchè apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione che è stata formulata nelle conformi decisioni dei giudici di merito.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2011